Dal 1875 creò ricchezza e posti di lavoro in Sicilia
Domenico Cacopardo
Il fascino delle storie delle famiglie antiche, si è ripresentato di recente con due opere ambientate a Palermo e riguardanti le vicende di due grandi famiglie palermitane, fondate da non palermitani. Mi riesce difficile credere alle coincidenze (diceva il saggio «Le coincidenze sono l’alibi dei bugiardi») e, in particolare in questo caso infatti, diventa impossibile: a distanza di poche settimane, Stefania Auci dà alle stampe «I leoni di Sicilia», prima parte della saga della famiglia Florio, e poco dopo, in maggio, Agata Bazzi pubblica (Mondadori editore, euro 19 ,00) La luce è là, traduzione dal tedesco Lik dör, storia della famiglia Ahrens, il cui capostipite, Albert, si trasferì a Palermo nel 1875, quando i Florio s’erano già ampiamente affermati, Tanto che una delle sue prime visite è dedicata a Ignazio, in quel momento capo della casata calabro-sicula.
C’è tuttavia una profonda differenza tra le due narrazioni e le due narratrici. La prima è ontologica e spinge il lettore a riflettere sulle tragiche giravolte della storia, quelle che si sono riviste nel ‘900 e rispetto alle quali, Bertha, una delle figlie di Albert, dopo la fine della seconda guerra mondiale dice: «Ora sappiamo cosa ci si può aspettare dal futuro», intendendo che una tragedia come quella del 1939-1945, con le sue stragi, può ancora ripetersi. E lo Schicksal, il destino che lo vorrà, se lo vorrà. Manca solo un elemento per capire il senso di queste affermazioni: Albert Ahrens e sua moglie Johanna sono ebrei tedeschi che si naturalizzano italiani e che generano figli italiani, che sposano gentili (cattolici), spesso convertendosi.
A testimonianza dell’amore per i luoghi, Albert Ahrens costruisce, nell’assolata città mediterranea, nella quale convivono l’opulenza delle grandi famiglie aristocratiche e la miseria più nera dei bassi, un pezzo di Germania, con i quattrini che ha guadagnato con i suoi commerci e con le imprese che ha fondato, in vari settori, dal vino ai mobili. Fabbriche che Ahrens gestisce in modo calvinista, sapendo quanta fatica gli è costato diventare ricco e quant’altra gli costerà rimanerlo. Il gineceo, il santuario degli Ahrens è la villa che Albert, con l’aiuto di Ernesto Armò, un allievo di Ernesto Basile, il grande architetto che introdusse e sublimò a Palermo il «Liberty», edificò in località San Lorenzo, trasferendocisi dalla via Sammartino, all’Acqua dei Corsari. «Seguivamo regole rigide», racconta Marta, una delle figlie, «ma non ricordo nessuna sofferenza.
Era normale, era semplicemente così». Un’educazione spartana, alla tedesca, come si diceva un tempo.
Non riassumerò l’imponente, scorrevole, affascinante e commovente racconto di Agata Bazzi, una delle bisnipoti di Albert e Johanna. Sarebbe ingiusto nei confronti dell’autrice e del suo lavoro. Ma onorerò i miei doveri di recensore per sottolineare come «La luce è là» non appartiene alla memorialistica familiare, ma alla letteratura alta, quella che suscita emozioni ed empatia, con la sua semplicità priva di retorica, diretta, che ci riporta ai maggiori esempi di letteratura ebraica. E per mettere in «luce» che questo romanzo racconta un’Italia, una Sicilia e una Palermo, nella quale lo spirito di intrapresa aveva modo di affermarsi, a dispetto delle ataviche tare e, forse, proprio per quelle che, per antinomie, stimolavano stranieri, italiani e siciliani a spendere se stessi nella costruzione di patrimoni, di imprese, di opere private e pubbliche.
Un’Italia, una Sicilia, una Palermo nelle quali la ricchezza non era né peccato né reato né immoralità da additare alla pubblica esecrazione, ma la forma nella quale si manifestava il successo professionale, la capacità di rischiare e di osare. Tutti fattori che hanno abbandonato l’Italia provinciale e perduta dei nostri giorni, incapace di pensare grande e di proiettarsi in un futuro di progresso. I Florio, gli Ahrens, gli Ingham e gli altri non temevano il futuro. Lo costruivano e lo costruirono impegnando il proprio ingegno, privi di un capitale diverso dalle loro doti personali.
Una lettura ora commovente, ora entusiasmante sempre interessante che, ripercorrendo le vicende di una famiglia ormai sterminata ci tiene legati alla pagina come sapevano fare, tra i tanti, Agatha Christie e Honoré de Balzac, tanto per non omologarsi all’archetipo, citato, della letteratura ebraica. Una metastoria dell’Italia attraverso due secoli, momenti felici e momenti drammatici, di disperazione e, poi, di libertà.
(ItaliaOggi, 29 giugno 2019)