Dopo nove anni di gulag, dall’86 l’ex leader dei “refusenik”, Natan Sharansky, vive in Israele. “Capimmo che non poteva esistere un comunismo dal volto umano”.
Elena Loewenthal
Sono passati cinquant’anni da quella Primavera di Praga che fu nella realtà una lunga stagione di lotta, di speranze e disillusioni. Per Natan Sharansky non è solo una questione di tempo, ma anche e forse soprattutto di mondi che ha attraversato da allora in poi. Il cammino a ritroso nella sua biografia è quasi vertiginoso: dal 2009 è presidente della Agenzia Ebraica, è stato parlamentare del Likud, ministro di vari dicasteri fra cui l’Interno e il ministero per i Rapporti con la Diaspora, vice primo ministro d’Israele, dove è arrivato nel 1986 dall’Unione Sovietica dopo una lunga battaglia per la libertà propria e altrui che gli è costata lunghi periodi di detenzione e 9 anni nel gulag di Perm. Natan Sharansky è stato il leader, anzi l’icona del movimento dei refusenik, i dissidenti ebrei dell’Urss che insieme alla democratizzazione invocavano la libertà di emigrare in Israele.
– Che ricordi ha della Primavera di Praga? Che cosa ha significato quel periodo per la dissidenza in Russia?
«È passato molto tempo … Non sono in grado di dare valutazioni politiche su quello che successe allora, ma i ricordi personali, i sentimenti sono assai vivi. Ero un giovane studente all’università, a Mosca, frequentavo la facoltà di matematica in una università prestigiosa, il che era di per sé un fatto eccezionale per un ebreo. Gli ebrei erano sempre in una posizione “critica”, fragile. Io sognavo una carriera nel campo delle scienze. Tra la fine del 1967 e i primi mesi del 1968 avevamo gli occhi puntati su Praga: c’era grande speranza. C’era soprattutto l’illusione che potesse esserci un’altra via, che potesse esistere un comunismo diverso, “dal volto umano”. E se questo era possibile, doveva cominciare proprio dall’Europa. Guardavamo con attenzione a Occidente, sperando nella costruzione di un socialismo più aperto. Se ne discuteva, fra studenti. Ma c’era al tempo stesso paura: paura di sollevare il dibattito pubblicamente e paura che la via di un socialismo dal volto umano non fosse praticabile. Era dunque una condizione ambivalente, quella di noi studenti, giovani scienziati, dissidenti in Unione Sovietica».
– Che cosa per l’appunto ha significato per il movimento dei dissidenti, la Primavera di Praga? Quanto li ha formati, posti di fronte alla realtà e alla necessità di cambiarla?
«Quanto avremmo potuto resistere, qual era la forza della dissidenza? Sono le domande che ci siamo posti di fronte agli eventi che hanno segnato la Primavera di Praga. Ma la nostra grande fonte di ispirazione, la nostra guida era Sacharov. Mentre i carri armati sovietici arrivavano a Praga, nell’agosto del 1968, lui scriveva che la scienza non può esistere senza la libertà: le sue Considerazioni sul progresso, la coesistenza pacifica e la libertà intellettuale sono state la Bibbia di noi dissidenti, in particolare di coloro tra noi che credevano nella scienza. Ci diedero la certezza che le cose non potevano andare avanti in quel modo. Grazie a lui abbiamo capito che non si doveva più tacere. A costo di andare in prigione … Allora pensavamo ancora nella possibilità di un’altra via dentro il comunismo, speravamo che la Primavera di Praga trionfasse per proporre al mondo un modello nuovo di socialismo, più aperto, compatibile con i diritti civili. Poi è venuta la disillusione, anche se nella realtà c’è sempre stato in noi, sin dall’inizio della rivolta, un fondo di scetticismo».
– Quanto hanno influito i fatti di Praga nella dissidenza ebraica, nel movimento dei refusenik che andava in cerca di una via d’uscita, politica e fisica dal comunismo e dal suo terrore?
«Il movimento ebraico era già “formato” a quell’epoca. Esisteva già, ma Praga ha dato un impulso molto forte. Due erano per noi le strade: andare via o darsi alla dissidenza attiva. Allora la pressione per uscire divenne più forte, alla fine della Primavera di Praga c’era in tutti ma più che mai nei dissidenti ebrei la certezza che in Russia non ci fosse più alcuna speranza».
– Come si spiega allora la passività dell’Occidente e in particolare dell’Europa di fronte alla repressione sovietica? Come avrebbero dovuto e dovrebbero reagire le democrazie di fronte alle aggressioni – interne ed esterne – dei regimi totalitari?
«Allora era una questione di Realpolitik. La passività dell’Occidente testimonia quanto fosse “profondo” e consolidato il regime sovietico. Le potenze occidentali un po’ non hanno capito, un po’, quando hanno capito, hanno avuto paura. Tutti gli equilibri di allora erano controllati dalla paura. E proprio questo era il messaggio che la dissidenza ha invano lanciato all’Occidente: smettetela di aver paura, fate pressione. Si può. Si deve. Lo stesso, se non peggio, accade oggi con regimi totalitari quali l’Iran. L’accordo con l’Iran è scandaloso non tanto per la questione nucleare, quanto per la cascata di dollari che comporta a fronte del silenzio sui diritti umani calpestati. Senza contare che l’accordo non ha neanche scalfito il lessico della propaganda di regime, la sua retorica contro l’Occidente: l’Iran continua a parlare dell’America come del male assoluto. E invece il primo passo per aiutare la dissidenza a conquistare la libertà dovrebbe essere non collaborare con i regimi totalitari, in alcun modo».
La Stampa, 6.2.2018