Una foto sbiadita, lontana nel tempo, vicina nell’immaginazione. David Kleiner, il padre, ha cappello e caffettano, come s’usava allora per tradizione tra gli ebrei dell’Europa orientale. La lunga barba, le spalle un po’ curve, l’aria stanca e rassegnata. La madre tiene la schiena dritta, i begli occhi chiari guardano fissi verso l’obbiettivo. Si capisce che è lei, Zippora, la vera anima della famiglia. Un po’ imbarazzata, in piedi, la figlia maggiore. Rivka è bravissima a scuola, intraprendente, volitiva. Moshe, il minore, ha l’atteggiamento vispo di chi vuol crescere in fretta, e ne sa già molte. L’immagine viene dallo shtetl, la cittadina ebraica di Kopyczyńce, nella parte dell’Ucraina allora sotto governo polacco. Siamo verso il 1925, Moshe ha undici o dodici anni e non sa quello che lo aspetta. Nessuno può nemmeno immaginare cosa verrà. Il fuoco che incendia, distrugge, uccide, annichila, quel fuoco terribile è ancora sopito. Certo, la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione d’ottobre e il confitto russo-polacco hanno portato anche qui travagli, trasformazioni, sofferenze. L’impero asburgico si è dissolto, l’economia langue, e la vita ebraica si deve arrabattare tra vecchie nuove difficoltà. C’è però un fermento recente, che agita le comunità e coinvolge soprattutto i giovani. Il sionismo scompiglia, incita ad agire, a prepararsi per l’emigrazione nella Terra d’Israele. Un mondo nuovo, una vita da riprendere in mano, dopo la lunghissima passività della diaspora. Uno scatto dopo l’altro, l’album di famiglia si arricchisce di nuove scene. Adesso sono i due ragazzi a farla da protagonisti. Crescono, sognano, lavorano, scoprono il mondo. Rivka e Moshe coltivano il progetto d’andarsene lontano. Rivka, che nel frattempo è diventata maestra, recita nel teatro yiddish. Moshe, di sette anni più giovane, la segue, s’intrufola sulla scena, vorrebbe provare anche lui la sua parte.
Moshe con due bambine ebree accolte a Selvino, sui monti bergamaschi, nel 1946 (American Jewish Joint Distribution Committee Archives, code n. NY_07541)
Le fotografie, a saperle guardare, sono porte che si aprono sulla vita. Ed è per questo che Sergio Luzzatto comincia il suo racconto proprio dalle immagini, da quelle che si sono salvate dal naufragio. I bambini di Moshe, che esce ora per Einaudi, è un libro da guardare, oltre che da leggere. Perché la dimensione visiva, realizzata attraverso un corredo di rare foto d’epoca, dà sostanza e profondità alla prosa sapiente che enumera, discrimina, narra. Bella la prosa, che ha piglio e dignità letterarie, mossa com’è da frequenti cambi di tono e di prospettiva, e da una felice mescolanza d’interventi diretti, affidati a un “io” autoriale vigile, nervoso, disinvolto, e di più pacati inserti storiografici ed esplicativi. E non meno riuscite le figure dei protagonisti, nelle loro pose, nelle vesti, nei volti e negli sfondi, che variano con il mutare delle circostanze e dei contesti geografici.
Yehudit, la moglie di Moshe, con un gruppo di altri piccoli profughi sfuggiti allo sterminio
Del resto, l’intero lavoro di “cucitura” è eseguito in maniera magistrale. Testimonianze fotografiche, lettere, dati archivistici, fonti giornalistiche dell’epoca, ricostruzioni storiche, tutto confluisce nel grande fiume del racconto, che dalla Polonia dello sterminio scorre, attraverso molti meandri, verso l’Italia, e da qui fino alla Terra d’Israele. Moshe, il ragazzino vispo che la sa lunga, è l’eroe principale. Una vicenda individuale, insomma, o meglio un asse biografico, lungo il quale si aggrega il cristallo misterioso e terribile della Shoah, e quello, tormentato e lucente, della nascita dello Stato d’Israele. Un minerale che cresce secondo sue segrete leggi e che, dopo e nonostante l’annientamento, ingloba una nuova redenzione. Perché l’ambizione di Luzzatto è di entrare nel materico buio della persecuzione assieme ai suoi personaggi, per accompagnarli senza abbellimenti e riduzioni. Ma, dopo il buio, giungere alla redenzione di quelli che riusciranno a sopravvivere, fino a vedere realizzato il sogno, il loro sogno.
La trama essenziale ha la semplicità della vita vissuta. Moshe Kleiner, dopo l’apprendistato dell’attivismo sionista in Polonia, raggiunge, verso il 1935, la sorella Rivka, in Palestina già da un paio d’anni. Cambia cognome, da Kleiner a Zeiri, sposa Yehudit, un’ebrea tedesca di buona famiglia, nata Trude Meyer e appena immigrata da Colonia, e comincia una nuova vita in kibbutz. Loro se ne sono andati in tempo, salvati dalla spinta sionista. Ma per gli altri, per quanti sono restati “laggiù”, il 1939 porta il fuoco divorante, quello che nessuno poteva prima immaginare. L’autore intreccia qui più fili, li mescola, li sovrappone. C’è Moshe che s’arruola come volontario nella British Army, nell’inverno 1942-43. Alle terribili notizie che giungono dall’Europa occupata, e alla minaccia nazi-fascista in nord Africa, bisogna pur reagire. Combattere, opporsi, resistere, questo è il suo progetto. Altri fili ci portano in Galizia, nei territori dell’annientamento. Sono fili scuri, pesanti. I ghetti, i campi, le fosse comuni, le comunità ebraiche sterminate con metodica efficienza. La voce di Moshe emerge chiara, grazie alle moltissime lettere scritte alla moglie lontana, che Luzzatto riporta alla luce, traduce, interpreta. Il ragazzino di Kopyczyńce è ora un soldato. Dopo essere stato di stanza in Libia, sbarca in Puglia con il suo contingente, nel marzo 1944. Poi Napoli e, verso metà di maggio 1945, Milano. La guerra è finita, ma la sua vera missione comincia adesso. Il caos eccitante del dopo, la consapevolezza sempre più chiara di quanto è stato perpetrato, la decisione di salvare chi può ancora essere salvato, e di farlo giungere nella Terra d’Israele – in breve, le ansie e lo zelo di Moshe in un’Italia frenetica e stordita, emergono con grande efficacia dalla penna di Luzzatto. E questo lavorio febbrile, del soldato ritornato a essere attivista sionista, trova finalmente un luogo, allo stesso tempo reale e simbolico. È la grande, moderna colonia estiva di Selvino, sui monti bergamaschi. Un complesso costruito dai fascisti, che si favoleggia, peraltro senza fondamento, sia stato abitato da Mussolini in persona. Moshe Zeiri lo trasforma in centro di accoglienza per orfani ebrei provenienti da “laggiù”. Con il sostegno delle organizzazioni di assistenza ebraica, arriva a ospitare, nell’immediato dopoguerra, centinaia e centinaia di giovani profughi. Qui i ragazzi ritrovano calore, fiducia, e vengono preparati alla vita del kibbutz. Poco importa che l’immigrazione sia illegale, e che gli inglesi facciano di tutto per impedire nuovi arrivi ebraici in Palestina, ancora sotto il loro controllo. Sergio Luzzatto segue le navi con i giovani pionieri di Selvino, li accompagna nelle traversie della deportazione a Cipro, fino all’effettivo arrivo in Terra d’Israele. Un arrivo difficile, tra i pregiudizi di chi crede che gli ebrei sfuggiti allo sterminio siano inadatti alle sfide di una nuova frontiera e della guerra d’indipendenza. Moshe rientra nel suo kibbutz dall’Italia a fine ’48, e proprio a questo punto, quando il racconto sembrerebbe volgere alla fine, i molti fili, di tragedia e di speranza, si uniscono così da mostrare il disegno complessivo. La storia, individuale e irripetibile, è anche epos collettivo, e affresco di una generazione. La prima foto del 1925, le istantanee della guerra del 1948, a cui prendono parte anche alcuni ragazzi di Selvino, e l’ultima immagine, scattata intorno al 1960, con i “bambini” di un tempo, ormai parte integrante della società israeliana, sono i punti estremi di un’unica vicenda. Un racconto di vita, di morte, di vita.
Sergio Luzzatto, «I bambini di Moshe: gli orfani della Shoah e la nascita di Israele», Einaudi, Torino, pagg. 393, € 32
© Riproduzione riservata