David Bidussa
La scena delle bandiere bruciate,e dell’intolleranza andata in onda martedì 25 aprile a Milano, non dice molto di nuovo, certo di fischi non è morto mai nessuno, ma il problema in sé non sono né i fischi, né il rito del fuoco “purificatore” (anche se il mito del fuoco che purifica ha a poco a che fare con la storia della sinistra, ne ha invece e moltissimo con quello della destra e del KKK americano).
Il problema su cui vorrei seriamente invitare a riflettere è il seguente. Nelle scorse settimane sono avvenute nell’ordine le seguenti scene: Lunedì 17 aprile un attentato scuote la città di Tel Aviv; un secondo attentato il 24 aprile a Dahab nel Sinai; ancora lunedì 24 aprile il presidente iraniano Ahmadinejad proclama che il suo obiettivo è l’eliminazione dello Stato di Israele e sollecita una unità complessiva degli islamici a eliminare fisicamente i suoi abitanti o rispedirli ai loro paesi di provenienza (forse più correttamente bisognerebbe dire di origine visto che circa il 70 % della popolazione israeliana attuale è nato lì). Israele – dice il presidente iraniano – è il prezzo fatto pagare agli arabi del senso di colpa dell’antisemitismo degli europei. Ahamadinejad, com’è noto, invece è un dichiarato amico degli ebrei.
Com’è che a sinistra solo la vista di una stella a sei punte provoca una reazione automatica mentre di fronte ai fatti che abbiamo citato la reazione è stata “dialettica”? Molti sostengono che la sinistra italiana è in parte affetta di antisemitismo. Non credo che ci sia un antisemitismo teorico, credo invece che ci siano due aspetti con cui la sinistra deve misurarsi.
1) Sguardo paternalistico da parte della sinistra nei confronti di tutto ciò che esprime un vago terzo mondo. In breve se un individuo si fa saltare a Tel Aviv o a Dahab il fatto sarà deprecabile, disdicevole, ma certo ci sono ragioni che lo hanno motivato. E queste sono riconducibili al suo avversario. Dunque “lo scandalo” è costituito dal suo nemico, il vero responsabile della sua decisione.
2) Sostiene a ragione Wlodek Goldkorn, responsabile culturale de “l’Espresso”, che la sinistra oltre al paternalismo, è affascinata dal mondo “lontano” e da una società ordinata e comunitaria, un fascino che esprime nostalgia verso qualcosa che si è perduto e che nel mondo lontano si crede ancora conservato e autentico. Alla fine, dunque, ciò che emerge il disagio – per non dire l’avversione – contro il radicalismo democratico, la sfida dell’individualità.
Dietro la diffidenza e la scarsa simpatia che Israele gode nella sinistra italiana, una volta superato il proprio il senso di colpa, insomma pagato il ticket d’obbligo nei confronti della memoria, è l’Antiamerica che torna a prima fila. Vecchio vizio della sinistra, a dispetto di Veltroni.
Quello delle bandiere bruciate forse è un incidente di percorso. Ma non servirà considerarlo tale. E’ invece il segno di una cultura radicata in profondità. L’immagine non è quella dell’ antisemitismo tradizionale. Dietro l’angolo non c’è né il pogrom, né lo sterminio. C’è, invece, il rifiuto dello straniero e allo stesso tempo il fascino dell’esotico. La sinistra ha una sfida dentro se stessa ed è la modernità. Fare dichiarazioni di condanna è importante, ma non saranno due parole in un comunicato a risolvere e a dichiarare acquisito un passaggio culturale che è in gran parte ancora da compiere.
Il Secolo XIX, 27 aprile 2006
E Forza Italia attacca: con voi i nuovi antisemit
Gian Antonio Stella
«Mai più», «Noi siamo ebrei»
Ma la condanna è sempre postuma. Nei cortei finti kamikaze e cartelli di Sharon con baffetti da Hitler.
«Noi siamo ebrei!», urlò tre anni fa Fausto Bertinotti al congresso del suo partito, per mettere una toppa alla sciagurata scelta di Rifondazione di non abbandonare come i diessini o la Margherita l’indecente corteo «pacifista» con finti kamikaze stracarichi di finti candelotti. Ma aggiunse: «E anche neri, aborigeni, islamici, immigrati, omosessuali, lesbiche…». Al che i critici sbuffarono: vabbè, e pure lapponi, rugbysti, tornitori… Lo sapevano già, come sarebbe finita: parole. La prova provata di come un pezzo della sinistra, al di là delle frasi di circostanza (disciplinatamente versate anche ieri), non voglia fare i conti fino in fondo con il problema, è proprio nel modo in cui le reazioni di sdegno sono arrivate anche ieri solo «dopo» che il caso era esploso a livello nazionale ma anche internazionale. Basti rileggere le cronache di ieri mattina alla manifestazione di Milano.
Scriveva Liberazione, ignara della posizione cristallina presa da un patriarca della sinistra quale Pietro Ingrao, che «stupidi insulti esclusi» (per la cronaca: «puttana», «troia», «bastarda») Letizia Moratti «non poteva aspettarsi altro dopo aver invitato a sfilare senza bandiere di parte». Tutto normale. «Più antipatica e sconveniente la contestazione del presidio dei centri sociali in piazza San Babila alla Brigata Ebraica. Sfilano con le loro bandiere bianche e azzurre con la stella di David, che poi sarà adottata da Israele, il 25 aprile è anche loro». Peccato per i fischi agli ebrei, prosegue il quotidiano rifondarolo senza dar peso alle bandiere bruciate, perché il «presidio antagonista» era «andato bene e raccoglieva solidarietà per la libertà degli antifascisti ancora in carcere dopo gli incidenti dell’11 marzo per impedire la manifestazione della Fiamma Tricolore». Traduzione: il pomeriggio in cui corso Buenos Aires venne messo a ferro e fuoco. Quanto al Manifesto, il titolo (interno) era: «150 mila e due fischi». Incipit: «Chi se la merita una piazza così? Nessuno. Non quelli che sarebbero chiamati a rappresentarla. Non quelli che sono chiamati a raccontarla. E così va a finire che gli uni, e gli altri — ignorando 150 mila persone — perdono tempo e sprecano inchiostro sulla “contestazione” al ministro Letizia Moratti».
Liquidata questa, tre righe dopo era liquidato lo sfregio a Israele: «Naturalmente non può mancare la bandiera di Israele “bruciata” da non si sa bene quale gruppetto “al di fuori del corteo ufficiale”». Ma non basta: «E poi, tanto per seminare un po’ di sdegno, ecco la “contestazione” alla “Brigata Ebraica”: passa in piazza San Babila, qualcuno grida “Intifada, Palestina libera, Stato d’Israele terrorista”. Dopo aver citato le gesta di dieci/undici manifestanti, va dato conto degli altri 149.989». Per dirla alla veneta: pexo el tacòn che el buso. Peggio il rattoppo dello strappo. Se è vero che i teppisti scatenati contro la Moratti, la Brigata Ebraica e la bandiera israeliana (fantastiche le virgolette a “bruciata”) erano un’infima minoranza, fa infatti sorridere Francesco Rutelli quanto sentenzia: «Non tollereremo più gesti simili». Già sentita, grazie. È proprio questo, il punto. Come scrisse un giorno Adriano Sofri, i «razzisti farabutti o ottusi» non mancano mai, in mezzo alla folla.
Ma il pesce nuota solo dove trova acqua: c’è qualcuno disposto a sostenere che un bellicoso cartello bushista e sionista e filoamericano potrebbe sfilare più di due secondi in una manifestazione «rossa» senza esser bloccato, rimosso e stracciato? È qui, il problema: non i tre, dieci o venti «fascisti di sinistra», come li chiama l’ambasciatore israeliano, ma chi in questi anni non li ha isolati. Peggio: ha titillato la loro violenza (verbale, simbolica e peggio) limitandosi troppo spesso a buffetti di circostanza. Andò così coi finti kamikaze che sfilarono senza essere scaraventati fuori al corteo dell’aprile 2002. Andò così col video proiettato a un convegno di Rifondazione dove si sovrapponevano le immagini dei campi profughi palestinesi e dei lager di sterminio nazisti. Andò così quando alla Festa di Liberazione milanese il portavoce della comunità ebraica Yasha Reibman scoprì un muro tappezzato di «vignette impressionanti dove il soldato israeliano che solleva il palestinese con una ruspa o l’altro che posa un mattone sul muro hanno il naso adunco, l’aria malvagia e sono raffigurati secondo i più classici stereotipi antisemiti». Per non dire degli striscioni sugli ebrei «nazisti» o i cartelloni con Ariel Sharon dotato di baffetti hitleriani visti mille volte alle manifestazioni «pacifiste» di questi anni.
Dice oggi Fabrizio Cicchitto che a Milano c’erano martedì «gli indiretti eredi dell’antisemitismo e i repubblichini, una parte dei cui disvalori evidentemente sono trasmigrati al centrosinistra». Parole che in bocca a chi era alleato alle elezioni con Roberto Fiore («Hitler è stato uno statista che ha commesso dei crimini») e Adriano Tilgher («Il Führer era un uomo che lottò per il suo popolo, incorrendo, secondo la storiografia ufficiale, in alcune storture») sono indecenti. Ma la storia di questi anni, che a un certo punto spinse il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni a una dura protesta («Ce ne ricorderemo al voto»), dice che la sinistra non ha avuto ancora il coraggio, come scrisse Sofri spiegando che «non possiamo confidare nell’Europa e tanto meno amarla se non amiamo lo Stato di Israele», di affrontare fino in fondo questa «terribile retrocessione».
Certo, Massimo Cacciari ha buone ragioni per sostenere che nel suo complesso «la sinistra è innocente, del tutto innocente di ogni antisemitismo» e ciò «va sempre rivendicato, contro ogni cialtroneria». Così come è difficile dar torto a Rina Gagliardi quando sostiene, su Liberazione, che l’accusa di antisemitismo «usata con la pesantezza di una clava» è «un insulto intollerabile per chi è venuto al mondo dopo l’orrore della Shoah, ed è cresciuto nel rifiuto radicale del nazismo e del razzismo». Ma episodi come quello del 25 aprile, ultimo di una lunga serie, dicono che contro l’antisemitismo rosso non tutti hanno fatto abbastanza. E che quei teppisti milanesi si sarebbero sentiti un po’ più isolati se, ad esempio, Rifondazione non avesse candidato Francesco Caruso che solo poche settimane fa disse «meglio Hamas di Mastella». O no?
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/04_Aprile/27/stella.shtml