Piperno: contro tutte le ipocrisie il mio omaggio alla grande letteratura israeliana. Lo scrittore di origini ebraiche mette in guardia dall’ enfasi di chi celebra la Shoah ma si dimentica dell’ antisemitismo di oggi
Alessandro Piperno
Sono ostile al Giorno della Memoria. Non per quello che rappresenta ma per quello che è diventato. C’ è qualcosa di estetizzante nella commozione delle scolaresche sgambettanti sui prati di Auschwitz, ma ancor più nell’ enfasi con cui i loro insegnanti la reclamano al grido: «Non dimenticate»! Inoltre ho il sospetto che i più pronti a sdilinquirsi sui sei milioni di ebrei trucidati siano i primi a indignarsi con il settimo milione superstite la cui prole oggi costituisce lo Stato di Israele. E che quindi, per alcuni, il Giorno della Memoria sia diventato l’ obolo da versare per garantirsi il diritto all’ elaborazione di deliranti raffronti. Tipo quella mia cara ex amica che una volta mi chiese: «Come può un ebreo come Sharon comportarsi come un nazista?». In spregio a una siffatta mentalità, a poche ore dal Giorno della Memoria, vorrei tributare un omaggio ad Israele tramite la sua inconfondibile letteratura. George Steiner ha scritto che Israele è un «miracolo triste», perché, per costituirlo, gli ebrei hanno sacrificato se stessi sull’ altare del nazionalismo. Mi pare che quest’ idea sia confutata dall’ allegrissimo miracolo rappresentato dalla narrativa israeliana. Com’ è possibile che un popolo di pochi milioni abbia prodotto un numero esorbitante di scrittori di livello?
Ahron Appelfeld ha detto: «La lingua ebraica mi ha insegnato a essere parco con le parole». Una lingua che ti castiga come un insegnante di scrittura creativa! È questa sobrietà che dona alla pagina israeliana una freschezza tale da resistere all’ oltraggio della traduzione? Deve essere fantastico cimentarsi con una lingua nuova di zecca addolcita da un arcaico retrogusto. Philip Roth ha notato, invece, che in Israele «la realtà fa notizia». Vivere dove la cronaca e la storia si confondono: un privilegio che i narratori americani sfruttano fino all’ esibizionismo, ma che i loro colleghi israeliani dilapidano in una pudicizia che sfiora la reticenza. Come quel «responsabile delle risorse umane» che, in un libro di Yehoshua, indaga sull’ identità di una donna morta in un attentato con un’ anaffettività degna d’ un personaggio di Camus. Perché perdere l’ occasione di ricattare il lettore con gli effetti patetici d’ un attentato terroristico?
Una versione postmoderna della «mentalità del ghetto»? Nient’ affatto: semmai, al contrario, un orgoglio che rifugge ogni tentazione vittimista. E a proposito di orgoglio, sentite cosa scrive Amos Oz: «Non ce ne facciamo più nulla della letteratura da piagnistei, (…) ora qui nella nostra terra abbiamo bisogno di una letteratura i cui protagonisti siano personaggi maschili e femminili attivi e non passivi, donne e uomini che non siano stereotipi di maniera ma persone in carne e ossa dotati di istinti forti, di debolezze tragiche». Da considerare poi il melting pot: una nazione apparentemente teocratica in realtà divisa in una miriade di culture: dal socialismo da Kibbutz al più retrivo tradizionalismo da Yeshiva. Inoltre, non va sottovalutato che molti ebrei emigrati in Israele appartenevano, nelle patrie originarie, ad élite intellettuali, e che quindi Israele nasce come un Paese fortemente alfabetizzato. Per non parlare del fatto che vivere in uno Stato in cui è normale essere ebrei ti libera dall’ ossessiva necessità di riflettere sul tuo rapporto con i gentili. Ma soprattutto bisogna pensare all’ euforia della terra ritrovata.
Basta leggere Kafka o Schulz, o posare lo sguardo su un quadro di Chagall per capire come la cultura della diaspora abbia rimosso ogni legame con la terra. Se la terra non ti appartiene, sbarazzatene. Rifùgiati nella parabola o nella fantasmagoria. Ebbene gli scrittori israeliani rompono il tabù ripristinando con la terra un legame antico. La morfologia israeliana diventa una cartografia spirituale. I libri di Agnon, Yehoshua, Oz, Grossman, Kenaz, a dispetto di quelli dei loro predecessori europei, si riempiono di voluttuose descrizioni: le loro pagine profumano di arance, di formaggio, di noci, di agnello, di Coca Cola, ma anche di catrame e di deserto. Profumi antichi e moderni si mescolano in una formidabile esperienza realista che, a sua volta, acquista forza in un’ aspirazione allegorica. Su tale fusione tra realtà e allegoria si fonda la rivoluzione della letteratura israeliana. Pensate a Molcho, il protagonista di Cinque stagioni di Yehoshua, che, avendo perso la moglie tedesca, s’ imbarca in un viaggio in Germania che suona come una resa dei conti, allo stesso tempo intima e storica. O al protagonista di Vedi alla voce: amore di Grossman che un giorno si vede recapitare a casa un parente direttamente dal manicomio, un nonno la cui incessante farneticazione diviene il simbolo dell’ impossibilità di raccontare la Shoah. Ma soprattutto pensate al personaggio che ha preso sulle spalle il fardello di questa rivoluzione: Balak, il cane randagio del celebre racconto di Agnon. Una volta Nabokov disse che il suo inglese non era che un pallonetto ben fatto in quella grande partita iniziata da Joyce. Molti scrittori israeliani potrebbero dire altrettanto rispetto ad Agnon. Perché lui ha la calma e la dignità dei fondatori. E Cane randagio è un capolavoro di spumeggiante antiveggenza. Balak è un quadrupede con due piedi affondati nel terriccio della tradizione, e gli altri due slanciati verso l’ avvenire mediorientale. Un cagnaccio di Gerusalemme che, pur non possedendo alcun requisito del personaggio kafkiano, sta per intraprendere un’ avventura degna di K. La sua mediocrità intellettuale e il suo carnale vitalismo fanno pensare a un Leopold Bloom in una versione canina di Walt Disney.
Un giorno un vecchio buontempone, inconsapevole della condanna che sta per infliggere al cane, gli scrive sul dorso in ebraico «cane pazzo». A causa di questa scritta, Balak assiste al cambiamento della sua vita. Gli ebrei, reputandolo rabbioso, lo scacciano dal quartiere. E lui si ritrova vittima di una colpa che non ha commesso, che, nel suo analfabetismo, non può comprendere, che lo costringe a un esilio nei quartieri non ebraici di Gerusalemme. L’ ironia è che, durante l’ avventura picaresca, Balak venga tentato dal marxismo, dalla psicologia freudiana, e perfino da una forma rudimentale di femminismo, nonché scomunicato dai rabbini e perseguitato dalla stampa nazionale. Finché, contro ogni ragionevolezza, non decide di tornare nel vecchio quartiere e azzannare l’ uomo che lo ha reso ramingo. È fin troppo evidente la dimensione simbolica del racconto. Eppure tale parodia del sionismo varrebbe assai poco se non fosse calata nel contesto d’ una Gerusalemme bollente, brulicante, multietnica, colma di voci e profumi eccitanti. E ciò che resta, alla fine del racconto, è lo stupore di fronte alla follia disperata con cui Balak decide di lottare per tornare a vivere nel suo Paese. Un senso d’ orgoglio che perfino uno scrittore pacifista come David Grossman ha definito: «La liberazione dall’ eterna umiliazione degli ebrei della diaspora».
Qualche mese fa, per la prima volta nella mia vita, vincendo un endemico disagio per la Piazza, ho aderito alla manifestazione promossa da Giuliano Ferrara a favore del diritto di Israele ad esistere. Ero lì, che camminavo per via Nomentana, torvo e diffidente come Balak, fingendo con me stesso di essere seccato. In realtà ero felice, e non solo di mostrare la mia solidarietà ad un popolo minacciato, ma anche di dichiarare la mia interiore riconoscenza a un manipolo di scrittori che, rivoluzionando una tradizione, hanno inventato un mondo.
Piperno Alessandro
Corriere della Sera – 21 gennaio 2006