In giro nella «cittadella» con Ruth Dureghello all’ombra del Tempio Maggiore e attorno a quella che tutti chiamano Piazza Giudìa, significa fermarsi ogni due metri.
Paolo Conti
«Ruth, salutame mamma tua, nun te scordà!». Vicolo della Reginella: una panchina e due donne anziane della zona più antica del Vecchio Ghetto ebraico di Roma, lì nell’unica strada rimasta del secolare reticolo di viuzze. Girare con Ruth Dureghello nell’area ebraica di Roma, all’ombra del Tempio Maggiore e attorno a quella che tutti chiamano Piazza Giudìa, significa fermarsi ogni due metri. La abbracciano e baciano tutti: ristoratori, baristi, passanti, le proprietarie del Forno Pasticceria Boccione, che espone in vetrina la migliore crostata ebraica di ricotta e visciole certamente di Roma, forse d’Europa.
Ruth Dureghello, da due anni esatti presidente della Comunità ebraica romana, è il simbolo di quella grande famiglia allargata che è l’ebraismo romano: «Siamo i romani più antichi, i primi ad arrivare furono i Maccabei nel II secolo prima dell’Era Volgare (è la definizione preferita dagli israeliti per indicare avanti Cristo, ndr), poi giunsero gli altri nel 70 dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme. Nessuna comunità italiana è così profondamente cementata con l’identità della propria città come avviene qui a Roma».
In una giornata di sole estivo, i richiami delle voci confermano: è il dialetto giudaico romanesco, rimasto intatto nei secoli, pieno di rinvii geografici. Soprattutto in via della Reginella: «Per noi questa strada è importante, spiega bene cosa fosse l’antico Ghetto con i vicoli stretti e le case quasi una addossata all’altra. Siamo fatti così, noi ebrei romani: abituati a stare uno vicino all’altro, da secoli».
Il cuore della cittadella ebraica romana è sicuramente il Tempio Maggiore, che Ruth Dureghello apre e mostra con amore e fierezza: «È il luogo che rappresenta la nostra emancipazione e la nostra rivalsa storica dopo i secoli del Ghetto chiuso dai cancelli. La prova della nostra capacità, dopo l’Unità d’Italia, di crescere e di rappresentarci: per di più è un’architettura eclettica che unisce la tradizione delle chiese romane a simboli orientali, quindi l’unione di due culture finalmente fuse dopo secoli in cui una tentò di sovrastare l’altra». All’ingresso, a sinistra, la lapide in cui si ricorda il gesto storico del soldato ebreo americano Charles Aaron Golub che per primo, il 4 giugno 1944, riaprì il Tempio, e lì per primo pregò, dopo la tragedia delle leggi razziali e del rastrellamento del 16 ottobre 1943.
La presidente della Comunità racconta: «Nonostante tutto, in quegli anni tragici ci fu sempre un controllo, una protezione da parte dei pochi scampati… Riaperto il Tempio, ricominciò la nostra vita e la nostra storia con la Liberazione di Roma». E qui emerge un ricordo personale legato all’infanzia: «Mia madre mi portava al Tempio da bambina e avvertivo fortemente quel senso di sacralità che emana questo posto. Oggi, col ruolo che ricopro, mi capita di entrare spesso, e con naturalezza. Quando ci rifletto, penso che se me lo avessero detto da ragazzina non ci avrei mai creduto…».
Pochi passi e, all’uscita del Tempio, la lapide che ricorda l’attentato del 9 ottobre 1982, da parte un commando terroristico del Consiglio rivoluzionario di al-Fath di Abu Nidal, in un giorno di sabbath (il sabato ebraico) in cui si celebrava il bar mitzvah, la maggiorità religiosa di molti adolescenti: un bambino di due anni, Stefano Gaj Taché, venne ucciso e 37 persone furono ferite. Cosa significa questo posto, con la buca sull’asfalto lasciata dalle bombe a mano ancora aperta? «Significa che noi ebrei romani, come gli ebrei in tutto il mondo, non possiamo mai stare veramente tranquilli perché c’è sempre l’odio di qualcuno con cui fare i conti. In quel caso fummo trattati da stranieri, pagando un prezzo legato a una guerra lontana, quella in Medio Oriente: l’antisionismo unito all’antisemitismo produce continuamente tragedie. E basta guardare cosa sta accadendo anche oggi in Israele per pensare che non bisogna mai abbassare la guardia».
Ma nello stesso tempo è bene guardare con decisione e forza al futuro, fa capire Dureghello: «Siamo pieni di fermenti e di vita. Abbiamo la bellissima Libreria Ebraica, unica a Roma e in Italia, chi vuole può trovare spunti culturali e religiosi di straordinario interesse. E poi c’è la scuola “Cesare Polacco”, il nostro fiore all’occhiello: elementari, medie, scuole superiori e altri asili nido sparsi per Roma, in tutto circa mille iscritti. Solo Roma, Milano, Torino e Trieste mantengono ancora una scuola ebraica. Ed è magnifico, la mattina all’entrata e all’uscita, vedere bambini e ragazzi sulla piazza».
Una gran voglia di normalità. La mattinata porta già i profumi delle cucine dei ristoranti e Ruth Dureghello non si fa pregare per parlarne: «La cucina giudìa romanesca è ricca di sapori antichissimi e ingredienti poveri, elementari, penso ai carciofi alla giudìa, agli aliciotti con l’indivia, allo stracotto che è l’ideale per la fine del Sabato, già pronto e utilizzabile con la pasta, il riso…». Il suo sapore preferito? Beh, gli aliciotti ma come li fa mia madre, sia chiaro…».
Fiera di essere un’ebrea romana? «Si vede, vero? (ride) Orgogliosissima. Di essere italiana e soprattutto romana e ebrea, perché penso che nessun ebreo nel resto del mondo avverta su di sé le gioie e le ferite della propria città quanto capita a noi. Cioè ai romani più antichi tra tutti i romani».
Corriere della Sera – Roma, 7.8.2017