Addio a Gretel Bergmann. L’atleta, un vero prodigio del salto in alto, fu esclusa dalle Olimpiadi del 1936 di Berlino per le sue origini. Fuggita negli Stati Uniti, la sua storia è poi diventata un libro e un film
Riccardo Bruno
C’erano voluti 73 anni perché la Germania riconoscesse il suo talento negato. Solo nel 2009 era stato riabilitato il salto da un metro e sessanta che Margaret detta Gretel Bergmann aveva stabilito un mese prima dell’Olimpiade di Berlino. Gretel aveva tutto il diritto a partecipare ai Giochi e probabilmente avrebbe vinto l’oro, ma il regime nazista non poteva permettere che a trionfare fosse un’atleta ebrea. «Cara signorina Bergmann — le scrissero — ci dispiace comunicarle la sua esclusione. Lei non è stata abbastanza brava e non può dunque garantire risultati. Heil Hitler».
Gretel Bergmann è morta martedì scorso, a 103 anni, nel Queens, a New York, dove si era trasferita nel 1937. Fuggita dalla Germania, dieci dollari in tasca per iniziare, i primi lavori come cameriera e massaggiatrice, fino a quando non dimostra il suo valore d’atleta vincendo i campionati americani, non soltanto di salto in alto ma anche di lancio del peso.
Gretel è un simbolo. La sua storia è diventata un libro, un documentario della Hbo e un film, Berlin 36, uscito nel 2009. Dieci anni prima le era stato intitolato lo stadio della città dov’era nata e dove aveva iniziato gareggiare, a Laupheim, nel Sud della Germania, vicino al confine svizzero. Lei accettò di prendere parte all’inaugurazione, rientrando per la prima volta nella sua ex patria, accompagnata da un interprete perché si era ripromessa di non parlare più tedesco. «Penso che sia importante ricordare, così ho deciso di tornare nei posti dove avevo giurato che non sarei più tornata». In un’intervista spiegò di non «odiare i tedeschi, anche se l’ho fatto in passato. Molti di loro stanno cercando di ricompensare gli errori d’un tempo, le nuove generazioni non possono essere ritenute responsabili di ciò che hanno fatto i vecchi».
Gretel non fu solo esclusa per motivi razziali, ma usata e beffata. Un prodigio atletico sin da ragazzina, la famiglia le fa provare corsa, nuoto, tennis e sci. Le prime vittorie a 10 anni, a 17 il record di salto in alto ai campionati della Germania meridionale. Ma a 19 anni l’allenatore le comunica che non potrà più far parte del suo club. È il 1933. «C’erano cartelli con scritto: non è permesso entrare a cani o ebrei», ricordò Gretel. Le viene negato anche l’accesso al collegio per la ginnastica di Berlino. Il padre Edwin decide così di portarla in Inghilterra e iscriverla al Politecnico di Londra. Nel 1935 salta un metro e 55 e vince il campionato nazionale inglese.
Gretel Bergmann inizia ad essere conosciuta come fuoriclasse di livello internazionale. Alla vigilia dei Giochi di Berlino, il Comitato olimpico preme sulla Germania perché non escluda gli atleti ebrei. Il governo nazista teme il boicottaggio, soprattutto statunitense, e invita Gretel a gareggiare. Lei è titubante, minacciano ritorsioni alla sua famiglia, alla fine si lascia convincere anche se non viene aggregata alla squadra ufficiale. A Stoccarda, un mese prima dell’apertura dell’Olimpiade, eguaglia il record nazionale, volando sopra un metro e sessanta. «C’erano bandiere con la svastica e saluti romani, la rabbia che avevo dentro era enorme. Era proprio in quelle situazioni che riuscivo a dare il meglio di me stessa. Saltai come non avevo mai fatto prima».
I tedeschi aspettano che arrivi la squadra olimpica americana, poi il 16 luglio comunicano a Gretel che resterà a casa. Le offrono solo un paio di biglietti, posti in piedi, per assistere alla finale. Lei non risponde nemmeno. «Fu uno choc terribile. Ero la migliore». Al suo posto viene chiamata Dora Ratjen, ariana di Brema, che però arriva solo quarta. Due anni dopo si scoprirà che in realtà Dora si chiama Heinrich, un maschietto tradito dalla barba dopo l’ultimo primato del mondo e arrestato per frode (anche se sarebbe troppo facile liquidarla come una banale storia di truffa: Heinrich/Dora sin dalla nascita mostra caratteristiche sessuali non definite, probabilmente nemmeno i nazisti ne sono al corrente).
La carriera sportiva di Gretel si interrompe invece allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Si sposa con Bruno Lambert, un ex velocista di non eccelso valore conosciuto da ragazza, anche lui rifugiato negli Stati Uniti. Diviene fisioterapista, madre di due figli, nonna e bisnonna. Quando le chiedevano del suo passato lei amava ripetere: «Ero la più grande speranza ebraica».
26 luglio 2017 (modifica il 26 luglio 2017 | 22:37)
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