Mostra straordinaria nel Braccio di Carlo Magno in Vaticano e nel Museo Ebraico dedicata al biblico candelabro del Tempio
Alvar Gonzalez-Palacios
I simboli, come le idee di cui spesso sono immagine, stanno alla base della vita umana e così, senza che ne siamo consapevoli, determinano la nostra storia. Si assicura che il 28 ottobre 312 le parole In hoc signo vinces apparvero a Costantino scritte sul cielo vicino a Ponte Milvio. Questa frase era seguita da una croce, simbolo di Cristo, che fece vincere all’Imperatore la celeberrima battaglia, inizio di un nuovo mondo.
Ma esistono simboli più antichi: uno di questi è la menorà a cui è ora dedicata una mostra straordinaria nel Braccio di Carlo Magno, in Vaticano, e nel Museo Ebraico di Roma. Non tutti sanno che cosa sia la menorà, termine spesso ignorato in antichi dizionari della lingua italiana come quello del Tommaseo. La definizione biblica è candelabro a sette bracci che è stato nel secolo scorso anche quello indicato in un celebre romanzo di Stefan Zweig, Il candelabro sepolto (1937).
L’origine dei simboli è sempre legata alla religione e al mito: della menorà, fisicamente parlando, abbiamo solo infinite memorie scritte e infinite immagini ma non più l’oggetto vero e proprio – un candelabro a sette bracci – fatto fare per ordine del Signore a Mosè in oro puro e destinato al Santo del grande tempio di Gerusalemme. Parliamo ovviamente del primo tempio. La menorà di cui ora trattiamo e di cui sono note alcune raffigurazioni, è quella più tarda trafugata con la violenza da Tito nell’anno 70 della nostra era e portata a Roma in trionfo l’anno successivo. Così attesta anche un magnifico bassorilievo dell’Arco di Tito, stante nel centro dell’Urbe.
I primi Candelabri scomparvero con la distruzione del primo tempio ad opera dei Babilonesi e Tito portò a Roma il candelabro eseguito successivamente, per il secondo tempio eretto nel 515 a. C. La forma comunque doveva essere simile: sei bracci incurvati attorno ad un braccio centrale dritto.
Fu lo storico ebreo, Flavio Giuseppe, a narrare nelle Antichità giudaiche l’aspetto del candelabro eseguito con un pezzo d’oro di circa un talento (34 kg) ornato di fiori e frutti con lucerne per l’olio sacro che doveva essere sempre acceso. Flavio Giuseppe fu presente sia alla distruzione del secondo tempio di Gerusalemme sia al trionfo di Tito a Roma; la sua descrizione è sommaria ma attendibile. Non tutti sono d’accordo sull’aspetto definitivo del Candelabro e nemmeno sulla forma della base. Non è neanche noto con certezza quando esso scomparve da Roma: molti rabbini di passaggio nella città, soprattutto durante il II secolo, scrissero di averlo visto dove allora si trovava, nel Tempio della Pace. Se così stavano le cose è possibile che quell’oggetto sia scomparso nell’incendio che danneggiò il monumento nel 192. Altri credono che la scomparsa sia accaduta molto più tardi, forse verso il 410, per volere di Alarico, re dei Visigoti.Altri ancora attribuiscono il furto ai Vandali di Genserico nel 455. Molti però accreditano una vecchia leggenda che assicura come tre fratelli ebrei, all’epoca dell’imperatore Onorio, avessero visto il Candelabro gettato in fondo al Tevere, vicino all’Isola Tiberina. Non abbiamo prova alcuna di questo fatto se non un’iscrizione del Museo Ebraico spesso creduta falsa; comunque qui rammento come in non poche conversazioni con Federico Zeri quel bizzarro veggente insistesse su questa teoria: «Non può essere altrimenti» affermava, come spesso gli accadeva, quasi in procinto di vedere ciò che agli altri non era dato vedere.
Le quasi quattrocento pagine a più colonne del catalogo curato da Alessandra Di Castro, Francesco Leone e Arno Id Nesselrath e un cospicuo gruppo di studiosi, cercano di spiegare il senso di questa idea e di questa immagine in una stupefacente antologia dell’arte fra l’antichità e i giorni nostri.
La concezione che presiede la forma del Candelabro ha antichissime origini. Per Zaccaria il Candelabro aveva un valore iconico straordinario ed era emblema della rinascita di Israele e della sua liberazione. Alcune delle prime raffigurazioni di oggetti del genere si ritrovano nella più antica sinagoga esistente, quella di Delos, in Grecia, e in una pietra scolpita e decorata databile tra il primo e il secondo secolo dopo Cristo e ritrovata solo pochi anni fa in una sinagoga di Magdala, sul lago di Tiberiade. Il Candelabro compare in molte catacombe ebraiche, nella sinagoga di Ostia e persino in quella di Dura Europos in Siria: sarcofaghi, iscrizioni tombali, lucerne funerarie, graffiti, monete, vetri decoratiin oro con quella tecnica squisita detta eglomisée, monili, manoscritti. Poi si compie uno strano ma non unico caso di trasmigrazione dei simboli e così abbiamo sublimi esempi di un candelabro ebraico che diventa cristiano. Gli esemplari sono infiniti, a cominciare da quello più famoso, il Candelabro Trivulzio del Duomo di Milano che data fra il XII e il XIII secolo ma è di sicuro in Italia fin dal Cinquecento. A Capranica si conserva, nel Santuario di Santa Maria della Mentorella, un candelabro a sette bracci di manifattura italiana (che alcuni credono essere una menorà riadattata). Più frequenti sono gli esemplari di manifattura tedesca come quelli a Paderborn (inizi del Trecento), quelli della Cattedrale di Essen e di Brunswick e quello del 1494 a Magdeburg (tutti illustrati nel catalogo). Ma il mio cuore va a due capolavori della scultura toscana, opere di Maso di Bartolomeo (1406-1456), collaboratore di Donatello soprattutto nel Duomo di Prato per fusioni bronzee. Si tratta di due candelabri a sette bracci poggianti su alte anfore che conseguono un inedito accostamento di forme classiche e idee più antiche ma trasformate da un soffio rinascimentale.
Nel Natale dell’anno 800 Carlo Magno venne incoronato a Roma Imperatore. Con senso della strategia e inaudita intelligenza legò la sua dinastia all’impero dell’antica Roma senza dimenticare però Re Davide Salomone e unendo così il Candelabro e la Croce, come scrive con raro dono di sintesi B. Künel, tanto è vero che il Palazzo di Aquisgrana veniva detto spesso il Tempio di Salomone. Da questa idea, dunque, dipendono i candelabri liturgici del mondo tedesco presenti anche in Italia. L’ispirazione della menoràcomunque si collega a forme naturali e ad una pianta, la morià, un tipo di salvia selvatica tipica del Sinai formata da nove rami anziché sette (ma esistono alcune menorà di nove rami). Non solo la forma rende famosa questa pianta ma anche la sua fragranza.
Nel catalogo si fa, nel lungo ed erudito saggio di Francesco Leone, un circostanziato elenco delle opere d’arte che raffigurano, sia per motivi ornamentali sia per motivi religiosi, candelabri a sette bracci: mi limito a due soli esempi, dipinti di Raffaello e di Poussin. Preferisco scegliere qui un foglio miniato di una Bibbia appartenente alla Biblioteca Nazionale del Portogallo. È un’ opera sefardita detta spesso la Bibbia di Cervera (recentemente ci si chiede di quale delle tre città con quel nome si tratti). Il foglio risulta miniato da Joseph Hatzarfati e data all’ultimo anno del XIII secolo o al primo del XIV. Questo miniatore, francese come specifica il suo cognome, si dimostra qui grande poeta in grado di interpretare la visione di Zaccaria: «ed ecco un candelabro tutto d’oro, con una sfera sulla sua cima e sette suoi lumi, e sette canali che vi sono sopra e presso di essa due ulivi uno a destra e uno a sinistra. Quei sette lumi sono gli occhi del Signore che spaziano su tutta la terra». Ma la magia continua fino ai tempi d’oggi. Ecco Matisse che, varcati gli ottant’anni, disegna la pianticella di cui abbiamo parlato con l’ingenuità di un bambino e la saggezza di un vecchio. E infine, di ieri l’altro, un lavoro donato al Museo Ebraico dal gioielliere Jar, in vari materiali, preziosi e non, che in un certo senso continua la visione di Matisse e del Giuseppe francese sefardita.
Il Sole 24 Ore – 2.7.2017