L’opera «L’anima della vita» di Hajjim di Volozhin, uscito postumo nel 1824, nella quale descrive un Dio corporeo, è ora pubblicata dalle Edizioni Qiqajon (Bose)
Pietro Citati
Hajjim nacque a Volozhin in Lituania nel 1759: fino alla morte nel 1821 fu il rabbi del villaggio. Fondò una casa di studio, che diventerà il modello di tutte le accademie talmudiche del diciannovesimo secolo. Scrisse un solo libro, L’anima della vita (edizioni Qiqajon, Bose, a cura di Alberto Mello), che uscì postumo nel 1824. Combatté gli eccessi della mistica chassidica, sviluppando la lettura dello Zohar e degli scritti di Izchak Luria.
Al contrario del Dio della Genesi, nel momento della creazione il Dio di Luria si contrasse, si ritirò, si limitò, si chiuse nella propria profondità oscura, rinunciando a una parte della propria estensione. Nello spazio abbandonato, lasciò un residuo della luce divina, il reshimu simile alle gocce d’olio o di vino rimaste in una bottiglia vuotata. Con la violenta concentrazione in sé stesso, Egli volle conoscersi nella propria inattingibile profondità. Questo sovrano gesto di contrazione diede origine all’universo. Se Dio non si fosse concentrato, l’universo non sarebbe mai nato: Egli volle che noi fossimo formati dalla stessa sostanza divina. Dunque il mondo è doppio: totalmente pieno di Dio e vuoto di Lui; disceso direttamente da Lui e abbandonato da Lui; luogo di gioia e di esilio.
Dopo di essersi concentrato in sé stesso, Dio si espanse e si manifestò, ispirato dalla forza dell’amore, e gettò nello spazio la luce delle sue emanazioni, le dieci Sefirot. Questa luce era troppo accecante perché lo spazio potesse sopportarla; e venne contenuta e fasciata in dieci vasi. Non tutti i vasi erano identici. I primi tre erano puri e perfetti: gli altri di specie inferiore. La forza della pura luce divina non sopportava qualsiasi adombramento. I vasi delle sette Sefirot inferiori si frantumarono; e le scintille divine si sparpagliarono in ogni angolo della creazione — negli uomini, negli animali, nei laghi, nei fiumi, nelle pietre, nelle piante velenose. Le scintille erano dovunque, ma esiliate, spesso prigioniere delle potenze demoniache. Tutto venne macchiato, spezzato, frantumato. L’albero della vita si separò dall’albero della conoscenza: l’elemento maschile da quello femminile; la Torà venne lacerata in seicentomila lettere. Da un lato, la rottura dei vasi faceva parte del provvidenziale processo di emanazione e rivelazione di Dio: dall’altro le scintille si mescolarono e contaminarono.
Così l’ebreo venne assillato da sentimenti opposti. Se Dio era stato umiliato, come non essere pieni di angoscia? Ma, se le scintille divine erano onnipresenti, come non venire posseduti da profondissime lacrime di gioia? Il fedele ebreo doveva cercare di liberare le scintille cadute prigioniere, restaurando la perduta unità della luce. Tutti i suoi più umili gesti quotidiani erano gesti di redenzione. Quando lavorava con amore scrupoloso le pietre, liberava le scintille dalle pietre: quando, seduto al suo desco di ciabattino, maneggiava con precisione il cuoio, liberava le scintille prigioniere del cuoio.
Nell’Anima della vita, Dio è corporeo: se il filosofo Maimonide aveva negato qualsiasi antropomorfismo di Dio, la mistica talmudica e cassidica esaltano la sua corporeità: ha occhi, orecchi, bocca, braccia, mani – senza misura e senza limiti. Come diceva lo Zohar tutti i mondi, superiori ed inferiori, sono inglobati l’uno nell’altro, l’uno dentro l’altro. Tutte le luci sono comprese l’una nell’altra e si illuminano reciprocamente; tutti i luoghi sono collegati gli uni agli altri «come gli anelli di una catena». Hajjm sottolinea l’influenza del mondo superiore su quello inferiore: il basso viene illuminato dall’alto, ma al tempo stesso egli descrive gioiosamente l’influenza del basso sull’alto: l’uomo è una creatura inferiore, eppure la sua parola influenza e decide i mondi superiori. L’uomo è l’ultima e la suprema opera di Dio: «una creatura meravigliosa», che ricapitola tutte le gerarchie, i precetti, gli splendori della luce più pura, i mondi e i palazzi superiori.
Nella tradizione ebraica di Luria, l’uomo è una figura grandiosa: assai più che nella tradizione cristiana, dove il peccato di Adamo viene costantemente ricordato. I commentatori della Torà discutono se siano più grandi gli angeli o gli uomini. Secondo alcuni di essi, l’uomo, essendo di natura corporea, è inferiore agli angeli, che sono puri spiriti e percepiscono mirabilmente le cose divine. Secondo altri, gli angeli sono difettosi: appunto perché sono sprovvisti di un corpo, non possono mettere in pratica tutta la Torà — la quale ha bisogno di corpo. Se la percezione del divino è più pura degli angeli, gli uomini possono congiungere ed elevare le potenze e le luci, riassumendo in sé stessi tutti i mondi, come gli angeli non possono fare. L’uomo è più comprensivo, totale e mobile degli angeli. Come diceva lo Zohar, «nessuna parola dell’uomo, neppure un suono, va a vuoto. Ogni parola che esce dalla bocca dell’uomo sale nei mondi superiori, risvegliando forze superiori».
Come raccomanda la tradizione di Israele, Hajjm ripete che bisogna studiare la Torà e i suoi seicentotredici precetti, con una specie d’intelligenza supplementare e superiore, rivelando i suoi segreti — cioè tutta la Torà perché la Torà è un immenso segreto. Oggi in Israele e nei Paesi d’Europa, la profezia è scomparsa: la profezia che ci permetteva di innovare e persino di sospendere i precetti di Dio. In questo tempo di decadenza, non possiamo che osservare e mettere in pratica la Torà — con infinita precisione ed attenzione, le quali sono oggi la nostra salvezza. La Torà è la luce di tutti i mondi è il loro slancio vitale. Se l’universo restasse privo di lei, interi mondi tornerebbero al caos originario. Dio, la Torà ed Israele sono indissolubilmente legati e dipendono l’uno dall’altro.
15 settembre 2016 (modifica il 15 settembre 2016 | 22:13)
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