È morto Elie Wiesel, una vita per raccontare l’orrore dell’Olocausto. Il giornalista e scrittore, Premio Nobel per la pace, aveva 87 anni. Sopravvissuto all’Olocausto, fin dagli anni Cinquanta decise di essere un testimone, un combattente contro l’oblio
Susanna Nirenstein
Non c’era cosa in lui che non parlasse di Dio, che non ci discutesse e litigasse: in una delle sue rare commedie, Il processo di Shangorod, l’aveva anche incriminato e messo a giudizio in uno shtetl del 1649, in Russia: era un dibattimento tra tre rabbini che aveva davvero visto ad Auschwitz, e non era mai riuscito a raccontarla. Tuttavia di Dio non dissertava mai, studiava e leggeva piuttosto ogni pagina dei testi sacri, traboccava di ebraismo, ne scriveva in continuazione, memorie, racconti, romanzi, personaggi biblici, riflessioni sul Talmud, 57 libri, migliaia di pagine. Col Signore aveva un conto aperto da quando nel lager la Shoah bruciava intorno a lui e gli rapiva gran parte della famiglia: “Non dimenticherò mai quelle fiamme che consumarono la mia Fede per sempre”.
Elie Wiesel, scomparso oggi a 87 anni, non dimenticava, diceva di essere carico di rabbia, contro il Mondo, la Storia, se stesso: fu così che alla fine, all’inizio degli anni ’50, scelse di essere un testimone, di scrivere, per contenersi diceva, anche se si forzava, diceva: sapeva di produrre qualcosa di buono solo quando “le parole erano incandescenti”. Fu così che decise di essere un combattente contro l’oblio, l’indifferenza, la menzogna, un partigiano del suo popolo e degli oppressi, come più o meno recitava il Nobel che ricevette nel 1986, perché ha sempre lottato per la libertà degli ebrei russi, finché c’era la Cortina di ferro, e quelli etiopici, e moltissimo si è speso contro i genocidi in Cambogia, Ruanda, l’apartheid in Sudafrica, per i desparecidos in Argentina, le vittime bosniache, gli indiani Miskito in Nicaragua, i Curdi, chiedendo interventi in Darfur, Sudan, una risoluzione Onu che definisse e giudicasse il terrorismo un crimine contro l’umanità. Con Primo Levi ha condiviso il ruolo insostituibile di testimone, precoci e affilati, capaci di parlare alla Terra, che sarà di noi senza di loro? Eppure sono stati così diversi. Levi, scientifico, matematico, sezionatore dell’indicibile, composto. Wiesel, secco nella scrittura e nelle descrizioni, ma carico di simboli, di evocazioni, di radici, di mondo ebraico, del wit mistico in mezzo a cui era cresciuto.
Era nato a Sighet, tra i Carpazi, allora Romania, il 30 settembre 1928 da Sarah Feig e Shlomo Wiesel. A casa parlavano yiddish, ma anche tedesco, ungherese, rumeno. La madre era figlia di un rinomato chassid, il padre un umanista appassionato, che lo spinse e l’accompagnò nello studio dell’ebraico e della Torah. Aveva allora tre sorelle, Hilda, Beatrice, Tzipora. Le prime due sopravvissero.
Sighet durante il conflitto era divenuta ungherese: da uno dei due ghetti creati nella cittadina, il 6 maggio 1944 la famiglia Wiesel fu deportata a Auschwitz Birkenau. Sul binario Elie baciò sua madre e Tzipora per l’ultima volta. Divenne A-7713, il numero che i nazisti gli tatuarono sul braccio. Mandato col padre nel campo di lavoro di Buna, un sotto-lager di Auschwitz III-Monowitz, e poi a Buchenwald nel gennaio ’45, vide il babbo picchiato a morte poche settimane prima dell’arrivo della III Armata Americana l’11 aprile. Elie Wiesel aveva 16 anni.
Riprese a vivere in un orfanatrofio francese. Mentre insegnava l’ebraico, studiava francese e poi filosofia, iniziò a fare il giornalista in tutte le lingue, compreso l’yiddish, per giornali francesi, israeliani… Ancora però non voleva parlare di Shoah. Era piccolo. E poi quanti sopravvissuti furono pronti allora ad affrontare un tema tanto immenso? Primo Levi scrisse Se questo è un uomo nel 1947, aveva 28 anni, e comunque l’Einaudi (nella persona di Natalia Ginzburg) gli rifiutò il manoscritto. Wiesel si appassionava di attualità invece, voleva andare in Palestina: però era emotivamente un sostenitore dell’Irgun, la formazione sionista che combatteva gli inglesi col terrorismo, non gli dettero il visto. Come mai, gli chiesero poi tutti, aveva scelto un’associazione armata? “Ero giovane, e nel 1946 volevo fare qualcosa. Anche se ero contro ogni uccisione, il popolo ebraico si stava svegliando e il mio posto era con loro, qualsiasi cosa stessero facendo”. E poi ha aggiunto mille volte “Sono pacifista, contro la violenza, e sono totalmente con Israele”. Sì, totalmente con Israele, oltre a altre mille prese di posizione, nel 2010 comprò una pagina sul New York Times e tre altri giornali americani per sottolineare il legame degli ebrei con Gerusalemme (“è nominata 600 volte nella Torah e non una sola volta nel Corano… è un legame che non si può sciogliere: per un ebreo vederla la prima volta vuol dire tornare a casa”) e criticare Obama che chiedeva a Israele di fermare la costruzione delle case ad Est. Ha ricomprato una pagina sui giornali durante l’ultima guerra di quest’estate con Gaza, perché l’America condannasse Hamas e il suo uso dei bambini come scudi umani, e con essi il culto della morte. Questo era Wiesel, urbano, commovente, ma anche un combattente non conformista: Israele, diceva, significa che per gli ebrei niente sarà più come prima. Niente più discriminazioni, niente umiliazioni, niente pogrom, niente Shoah.
Torniamo alla vita e ai libri. In Francia Wiesel capì che la sua vocazione erano le parole, lavorava per i giornali, leggeva come un pazzo, adorava Camus, l’Olocausto però gli appariva un territorio proibito. Tutto cambiò durante un’intervista allo scrittore cattolico Francois Mauriac: lo fece piangere paragonando le sofferenze dei bambini ebrei a quelle di Gesù. Mauriac gli suggerì di parlarne. E lui scrisse una prima versione di La notte in yiddish, più di 900 pagine (Und di Velt Hot Geshvign, E il mondo rimase in silenzio). Una volta riscritto in francese e molto più brevemente, Mauriac gli regalò un’introduzione. Fu rifiutato da tutti gli editori fuorché dal piccolo Editions de Minuit nel 1958. Ma non vendette quasi niente, e così fu in America: nessuno lo voleva, vendere il Diario di Anna Frank era possibile, non mostrava l’orrore dei campi, e terminava con parole di speranze nell’umanità. Non così La notte che cominciava dove Anna Frank finiva, e si chiedeva dell’assenza di Dio durante lo sterminio. Era un grido. Fu stampato nel ’59, pochi lo comprarono.
Poi nel ’61 la cattura di Eichmann e il suo processo a Gerusalemme mutarono la scena, e le guerre dei Sei Giorni e di Kippur ancor di più: l’umanità divenne consapevole della Shoah e si interrogava dei destini ebraici. Elie Wiesel che era andato a vivere a New York a metà degli anni ’50, iniziò a tenere lezioni. Nel ’78 Jimmy Carter lo inserì nella commissione per l’Holocaust Museum. Quando nell’85, Reagan visitò il cimitero militare (dove erano sepolte le SS) in Germania, Wiesel gli disse: “Non è quello il suo posto, signor presidente, il suo posto è accanto alle vittime delle SS”. Il giorno dopo era su tutte le prime pagine. E l’anno dopo ricevette il Nobel. Alla fine degli anni ’90, La notte vendeva 400.000 copie all’anno. E’ arrivato a molto più di 10 milioni. In Italia Daniel Vogelmann lo scoperse per primo e lo pubblicò nel 1980: iniziò così le pubblicazioni della sua casa editrice, la Giuntina, che ne pubblicò poi molti altri (come altri ne hanno stampati tanti editori).
Era il resoconto di Auschwitz. L’unico che scrisse. Poi cantò i suoi progenitori, il chassidismo, la formazione religiosa, lo shtetl, gli ebrei oggi e la difficoltà di uscire dall’incubo della Shoah, e con profondità psicologica i personaggi biblici attraverso il Midrash, racconti autobiografici come L’ebreo errante che narrano dall’infanzia a una Parigi popolata anche di spettri bellici, La città della fortuna, Sei riflessioni sul Talmud. Troppi, non si possono citare tutti. L’ultimo è stato A cuore aperto (Bompiani), dopo un’operazione urgente di poco tempo fa in cui si ritrovò ancora una volta di fronte alla morte: “Questa volta ero più solo. Allora ero con gli altri”, disse. Crede ancora nell’umanità, qualcuno gli chiese: “La Torah insegna a scegliere la vita. Credo nell’umanità contro l’umanità. Credo in Dio contro Dio”.
(la Repubblica, 2 luglio 2016)