Arrivano dall´India i Figli di Menasse, dispersi da 2.700 anni – Riemersi da una piega della storia ebraica, i discendenti della tribù perduta hanno faticato molto a farsi accettare dal rabbinato ufficiale – Perseguitati e convertiti con la forza, sono stati “scoperti” da un rabbino israeliano – Hanno gli occhi a mandorla e una fede solidissima I primi 218 in arrivo a Tel Aviv
Alberto Stabile
GERUSALEMME – Arrivano dal nordest dell´India dopo aver attraversato l´oceano della Storia. Perciò non bisogna stupirsi se hanno occhi a mandorla, passaporto indiano e un´antica fede ebraica. Sono, dicono, i discendenti della tribù di Menasse, esiliata e dispersa in Asia dopo la conquista assira del regno d´Israele nel 722 a.C. I «Bnei Menashè», letteralmente «figli di Menasse», non sono una novità nel fluire dell´immigrazione verso la Terra dei Padri. Alla spicciolata, su base più o meno individuale, ne sono già arrivati un migliaio negli ultimi due decenni. Per la prima volta, tuttavia, un gruppo di 218 Shinlung, o Mizo-Kuki-Chin, come vengono definiti dagli antropologi, sbarcheranno nei prossimi giorni all´aeroporto Ben Gurion, preceduti e seguiti, proprio in quanto «gruppo», da qualche polemica.
Nascosti come sono stati per secoli nelle pieghe della Storia, perseguitati per le loro credenze religiose, privati delle loro case e delle loro terre, venduti come schiavi, sballottati dall´estremo oriente cinese al Tibet, questi ebrei dalle fattezze mongole si sono infine ritrovati in due regioni indiane, Maniour e Mizoram, al confine con la Birmania. E qui, nella seconda metà dell´Ottocento e fino agli inizi del ventesimo secolo, hanno dovuto subire l´offensiva dei missionari anglicani che li hanno convertiti a forza al cristianesimo. Non ci sono documenti che possano dimostrarlo, perché i popoli reietti non hanno archivi in cui preservare le tracce delle proprie radici, né tribunali cui potersi appellare. Ma le loro leggende, passate di bocca in bocca prima della loro conversione, parlavano di una patria amata da cui furono scacciati, di un viaggio interminabile e periglioso culminato nell´attraversamento di un mare di colore rosso. E che dire della festa del raccolto, che sembra evocare eventi tali e quali quelli riferiti nel Libro dell´Esodo?
Ma fu soltanto a metà del ‘900, esattamente nel 1951, che un pentecostale chiamato Malachala o Challiantanga, proveniente dal villaggio di Buallawn, riferì d´aver fatto uno strano sogno. Dio gli s´era rivelato, ordinandogli di riportare la sua gente alla fede precristiana osservata prima della conversione e di tornare alla paria originaria, Israele. I suoi discendenti, oggi Bnei Menashè, sostengono che Challiantanga effettivamente partì con un pugno di seguaci, ma imbattutosi nella giungla, dovette fare marcia indietro e rinunciare. Nonostante quell´iniziale fallimento, tuttavia, le conversioni si moltiplicarono e gli echi di quella popolazione che si ritiene legata ad una delle tribù perdute giunse in Israele. La causa dei discendenti di Menasse non avrebbe fatto molta strada se non avesse attratto l´attenzione del rabbino Elihau Avichail, uno studioso che ha speso tutta la sua vita sulle tracce degli ebrei inghiottiti nei gorghi della storia. Avichal, nel 1979, fonda l´organizzazione «Amishav» (Il mio popolo ritorna) dando di fatto inizio al lungo processo che porterà nei prossimi giorni a 218 arrivi, tutti in una volta.
Già nel gennaio del 2000, tuttavia, Avichail aveva festeggiato come «un trionfo della fede» lo sbarco al Ben Gurion, senza il marchio del governo e delle agenzie che favoriscono l´immigrazione in Israele, di parecchi Bnei Menashè. Ma il percorso non è stato facile. Ci sono voluti anni prima che il rabbinato centrale accettasse la rivendicazione di appartenenza all´ebraismo da parte di quei membri della popoalzone Shinlung, o Mizo-Kuki-Chin, desiderosi di convertirsi. Anni di battaglie, dentro e fuori Israele, e di missioni impossibili. Giunta, nel 2005, la decisione favorevole del rabbinato, viene spedita una task force in India per favorire le conversioni in loco di quegli ottomila Bnei Menashè desiderosi di convertirsi. Ma il governo di Nuova Delhi s´oppone, altre minoranze gridano al favoritismo nei confronti degli ebrei, i rapporti, per altro eccellenti, tra India e Israele vengono messi a rischio.
La polemica interna invece s´accende quando, in vista dell´operazione che prenderà il via nei prossimi giorni, il ministro israeliano dell´Assorbimento, Zeev Boim, annuncia che i 218 – la cui conversione risale già all´anno scorso – potranno giungere in Israele non prima che il governo decida quale atteggiamento tenere verso le altre migliaia che hanno manifestato il desiderio di convertirsi ma non lo hanno ancora potuto fare. Michael Freund, fondatore di un altra organizzazione favorevole all´accoglimento dei Bnei Menashè, spara a zero accusando Boim di tenere una linea «illegale, immorale e contraria ai valori del sionismo e dell´ebraismo».
Per questo, oggi, il ministro dell´Assorbimento, a proposito dei 218 nuovi immigrati, parla di una decisione «una tantum», destinata a non ripetersi. Mentre il personale coinvolgimento del premier Olmert dice quanto importante siano questi nuovi arrivi per il governo israeliano. A differenza di quelli che li hanno preceduti, i nuovi immigrati dall´India nord-orientale saranno accolti nella zona del Carmelo e vicino a Nazareth. In Israele, dunque, mentre i primi trovarono sistemazione soprattutto negli insediamenti di Gaza e nella West Bank. Non di proposito, disse a suo tempo in un´intervista a Repubblica il rabbino Avichail, ma perché non avevano trovato posto nei kibbutz religiosi dove sarebbe stato preferibile mandarli. Al momento dell´evacuazione del Gush Katif, nell´agosto 2005, molte famiglie di Bnei Menashè si opposero alla decisione di Sharon di abbandonare la Striscia di Gaza.
La Repubblica 27-9-2006