Ancora sul tema della Giornata della Cultura Ebraica 2015. Un estratto di un lungo articolo che andrebbe letto nella sua interezza (MODIFICATO)
… Ma c’è un’azione più generale e più insidiosa, che si esercita sul complesso del popolo ebraico e a cui bisogna fare attenzione. Un popolo sottomesso per due millenni a una diffamazione continua, a una pressione generale per distruggersi, a un odio quotidiano, praticato da molti e teorizzato a tutti i livelli, non può che portarne le cicatrici, anche se è riuscito a sopravvivere alla persecuzione fisica, mentale e culturale. Sono quelle tracce che un bel libro di qualche anno fa purtroppo non tradotto in italiano ha chiamato “The Oslo syndrome” (http://www.amazon.com/The-Oslo-Syndrome-Delusions-People/dp/157525557X, http://www.oslosyndrome.com/ ) , sul modello della famosa “sindrome di Stoccolma” che si è riscontrata in molte persone rapite e sequestrate, che dopo un po’ hanno dimostrato dipendenza psicologica, complicità, perfino affetto nei confronti dei loro aguzzini.
Per fare qualche esempio di queste cicatrici, nel corso dell’Ottocento e prima della fondazione dello Stato di Israele c’è stata una forte tendenza degli ebrei a farsi accettare come italiani (o tedeschi, francesi, americani ecc.) “di religione mosaica”, senza nessuna dimensione di popolo o rapporto con la terra di Israele (questa è la base di molto antisionismo sia nei movimenti di destra come la fascista “Nostra Bandiera”, si in quelli di sinistra). Più in generale, c’è stata e c’è ancora una forte spinta a mostrarsi “buoni”, cioè pacifisti, progressisti”l’esercito più morale del mondo” ecc.
Questa è ancora oggi una delle vie d’uscita principali quando si presenta la – diciamo così – scelta di Matisyahu: proprio perché sono ebreo, cioè molto buono, altamente morale, pacifico eccetera eccetera, io mi distanzio dalle pratiche non abbastanza angeliche del governo israeliano, del suo esercito, delle loro alleanze, del loro trattamento dei nemici ecc. Io sono il vero erede della morale dei Profeti, il popolo ebraico reale, quello che votando decide i governi e combatte per difendersi, è irrimediabilmente corrotto – proprio come dicono gli antisemiti. Questo è l’atteggiamento comune agli ultraortodossi antisionisti tipo Satmar e Naturei Karta e agli utopisti di sinistra, quelli che si raccolgono intorno a Haaretz e magari aiutano i palestinisti nelle loro provocazioni, dalle flottiglie e al terrorismo.
Intendiamoci, tengo anch’io alla moralità dell’esercito israeliano e in generale della politica dello Stato di Israele. Ma mi rendo conto che nel mondo reale spesso è necessario fare dei compromessi, usare dei trucchi, esercitare la forza ai confini con la violenza. Nelle scritture ebraiche, che hanno il grandissimo merito di essere molto realiste, di non idealizzare neppure i massimi protagonisti della nostra storia, tutto questo è descritto con chiarezza.
Perché vi racconto queste cose? Mah, senza dubbio è interessante pensarci. Obama sta massicciamente utilizzando il ricatto della “doppia lealtà” per tirare dalla sua almeno un pezzo della comunità ebraica americana, la quale peraltro è in grande maggioranza democratica anche perché la spinta verso la più generica bontà, intesa semplicisticamente, si apparenta facilmente a posizioni politiche di sinistra. Del resto lo stesso argomento è stato sollevato anche in Italia, a proposito della scelta del nuovo ambasciatore israeliano a Roma nella persona di Fiamma Nirenstein.
Ma c’è di più. Domenica si svolge la “Giornata della cultura ebraica” intitolata a “Ponti e attraversamenti”. Bizzarro tema, se, come ha notato rav Riccardo Di Segni (http://www.kolot.it/2015/08/27/la-triste-retorica-di-ponti-e-muri/ ), nella Torah, che dopotutto è il cuore della cultura ebraica, la parola “ponte” (“gesher”) non compare mai, anche perché in Israele il solo fiume permanente è sempre stato il Giordano, facilmente guadabile in molti luoghi.
Beninteso, non c’è nulla di male nei ponti, anzi. Non ho vergogna a confessarvi qui il mio fascino per Ponte Vecchio di Firenze, il Ponte di Bassano, il Ponte Pietra di Verona, quello di Rialto a Venezia e anche per molti artefatti autostradali, che più che ponti vanno considerati viadotti; perfino per quello di Calatrava a Gerusalemme (non quello di Venezia che trovo brutto). Ma tutti non c’entrano con la cultura ebraica. Il fatto è che si tratta di ponti metaforici, non reali. Per essere più precisi, chi ha concepito questo titolo (fra i più insensati della serie di queste manifestazioni, che spesso hanno avuto temi piuttosto bizzarri) si riferiva alla campagna “ponti e non muri” che l’associazione cattolica Pax Christi, violentemente antisraeliana ha lanciato dal 2004 (http://www.paxchristi.it/?cat=31 ) e che è stata ripresa in parecchie occasioni da vari Papi e naturalmente dalla stampa, sempre contro Israele.
L’allusione evidente è alla barriera di sicurezza che ha efficacemente bloccato l’offensiva terrorista degli attentatori suicidi, che prima della sua costruzione partivano dai villaggi arabi e non trovavano ostacoli sul percorso verso gli autobus, i bar, i supermercati, i ristoranti in cui si facevano esplodere. Chiedere “ponti invece che muri”, al di là dell’efficacia dello slogan, significava chiedere via libera al terrorismo, altre vittime innocenti. E che l’Autorità Palestinese continui a condurre questa battaglia appoggiata dal Vaticano, da altre chiese, da pezzi di opinione pubblica vuol dire proprio questo: meglio avere centinaia di morti in attentati che limitare la libertà di movimento degli arabi e magari imbruttire i campi della Giudea.
Inutile dire che questa non è l’intenzione degli organizzatori della Giornata della cultura ebraica, ma che abbiano scelto questo tema e questa metafora indica una profonda subalternità culturale, un caso particolarmente grave di quella sindrome di cui vi parlavo prima. Anche perché, se proviamo ad ampliare la metafora, gli ebrei sono sempre stati accusati di essere un popolo che si differenzia da tutti gli altri, che insomma non apre ponti agli altri, che segue le sue leggi e sta separato. Troviamo questa accusa nei primi discorsi contro gli Ebrei (il faraone dell’Esodo, il visir persiano Hamam nel libro di Ester, Tacito), giù giù fino alle accuse di isolamento ed egotismo che spiccano nei discorsi antisemiti di Kant e Hegel e Schopenhauer.
Il fatto che questo atteggiamento di cura per la propria cultura sia un fattore causale evidente di quel miracolo che è la sopravvivenza dell’ebraismo in migliaia di anni di diaspora è naturalmente solo un’aggravante. E così l’idea, chiarissima nell’uso linguistico ebraico che la “santità” abbia a che fare con la separazione, che il termine “kadosh” voglia dire proprio “distinto, separato” (il che etimologicamente vale anche per i termini indoeuropei “sacro” e “santo”, ma questo è un altro discorso, troppo complesso per essere svolto qui). Insomma, in epoca di assimilazione generale, l’elogio dei ponti, se si parla di cultura, in senso letterario e religioso come in senso antropologico, è in piena contraddizione con lo spirito dell’ebraismo e la sua sopravvivenza.
Questo non vuol dire che il dialogo e la collaborazione con le altre religioni e la società civile debbano essere respinte, ma semplicemente che è veramente poco sensato presentare la cultura ebraica sotto la metafora del ponte. A meno che non si sia vittime di una gigantesca sindrome di Oslo e non si tenti così disperatamente di sembrare buoni. Ma anche in questo campo, come in quello politico, i passi dell’estraneazione da sé non sono mai abbastanza.
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=59423
Gli ebrei italiani come il Tenente Colonnello Nicholson del Ponte sul Fiume Kwai: Per chi si costruiscono i ponti?
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