La gioia del corpo e il respiro dell’anima, la festa del cibo e la gloria dell’eros: per il pensiero ebraico, sono profondamente connessi. Lungi dall’essere una prigione, la physis è divina e nobile. E ci aiuta a mantenerci puri di cuore. Basta seguire i precetti
Roberto Della Rocca
La storia della creazione del mondo nel libro della Genesi ci può dare una prima indicazione di come sia considerata la corporeità nell’ebraismo. Il corpo umano non viene né divinizzato, né rinnegato. Il corpo dell’uomo è costituito dalla terra, da cui deriva anche il nome del primo uomo, Adamo. Adamàh vuol dire terra in ebraico, è quella parte della terra che è fertile, coltivabile, il suolo, la polvere che si può raccogliere e con cui si può impastare una statua. L’immagine biblica è proprio quella di una statua che prende vita grazie al soffio (rùach, lo spirito) dell’Eterno. Esiste una correlazione di un certo tipo tra spirito e materia, cielo e terra, creazione del mondo e creazione dell’uomo: la terra, il corpo dell’uomo, quell’aspetto per cui gli uomini sono creature fragili, destinate a tornare alla polvere, è propriamente il contenitore di quello che in noi è sacro, lo spirito divino. Non che la terra rappresenti la negatività: tutto il creato è cosa buona (tov), e l’uomo è molto buono (tov me’od).
Il corpo non è nemmeno considerato come una prigione dell’anima, come per il greco Platone; il mondo corporeo è piuttosto paragonato ad un palazzo dove abita il Signore. Infatti, il cor po è il luogo dove sta il soffio dell’Eterno, e l’uomo è creatura divina. Quindi il corpo umano va custodito con cura. Non è un caso che molti rabbini fossero anche medici. La religione ebraica considera gli atti corporei dell’uomo come una benedizione del Signore, e così reciprocamente in ogni atto della giornata, a partire dal risveglio, fino al momento del sonno notturno va ringraziato il Creatore, recitando le opportune benedizioni: ogni momento della nostra vita è come un dono da ricevere con gioia e di cui ringraziare. Questo è il motivo della precettistica ebraica: i precetti sono la strada che il corpo umano percorre verso la Kedushà, la santificazione della vita. Gli ebrei sono tenuti ad osservare 613 precetti, 365 comandi negativi e 248 comandi positivi. Anche questi numeri ci indicano l’attenzione che è rivolta alla corporeità: 365 sono, infatti, i giorni dell’anno, e 248 sono le parti del corpo umano. Dunque, secondo la tradizione, ogni momento nel tempo, e ogni parte del corpo, sono tesi all’osservanza dei precetti. L’accettazione dei precetti è conseguenza di un patto con il Signore, in cui si è accettato un principio originario, un ordine prioritario, quello della kedushà (santità nel senso di distinzione), sulla base del comando biblico (Lev. 11, 44 – 45 e 19, 2). Si tratta di mantenersi puri di cuore, ma anche nel corpo.
In questo consiste l’imitazione del Creatore: nell’accettazione libera dei precetti e nell’osservanza, al preciso e unico scopo di essere distinti e consacrare, rendere puro, ogni atto della nostra giornata, dall’alba al tramonto, dalla nascita alla morte. Il nostro corpo è il luogo dove si esercita questa kedushà.
E i momenti più significativi nei quali si mette in atto la kedushà sono quelli legati alla sfera alimentare e a quella sessuale della vita umana. Nell’ebraismo vige un’ampia e puntuale normativa in materia di alimentazione. Si può mangiare solo ciò che è “kasher” (buono, adatto), come sancito nella Torah e interpretato dalle leggi rabbiniche.
Il nutrimento materiale è paritetico a quello spirituale. L’ebreo ha la costante responsabilità di cercare il comportamento corretto che rispecchi la volontà del Creatore anche in attività semplici e di routine come il mangiare. Non si può mescolare latte (o suoi derivati) e carne durante lo stesso pasto; sono ammessi solo quadrupedi che hanno l’unghia spaccata e sono ruminanti; l’animale va macellato conformemente alle leggi rabbiniche. Gli animali marini devono avere squame e pinne; è vietato pertanto il consumo di frutti di mare, molluschi e crostacei. Anche la produzione del vino, dei formaggi e di altri prodotti deve seguire criteri e standard stabiliti dalla normativa rabbinica. La tendenza prevalente nella Tradizione ebraica è sempre stata quella di non rifiutare la corporeità, ma semmai di purificarla per quanto possibile mediante l’osservanza dei precetti e il continuo ringraziamento al Creatore per tutti gli atti della vita materiale che recano un godimento a colui che li compie. Dunque, nulla di più lontano dall’ebraismo delle posizioni dell’edonismo sfrenato e del falso spiritualismo.
Spirito e materia, anima e corpo. Un dualismo che non è dualismo, e che non può essere posto in parallelo con il bello e con il brutto, e soprattutto con il buono e con il cattivo. L’uomo è unitario, per l’ebreo, e ogni uomo ha una sua specificità (ognuno vale quanto il mondo, e uccidere un uomo è come distruggere il mondo intero…). I nostri Maestri esprimono efficacemente questo concetto affermando che l’uomo, per alcuni versi, somiglia, nella sua materialità, a una bestia. Come l’animale egli mangia, beve, si accoppia, prolifica, emette i suoi bisogni e infine muore. Ma l’uomo somiglia anche agli angeli: cammina su due piedi come loro, vede come loro, parla come loro e possiede la conoscenza come loro. Ma l’uomo è pur sempre un essere a sé, non s’identifica né con l’animale, né con l’angelo. Non è materia o spirito, perché c’è spirito nella sua materialità e materia nella sua spiritualità.
Il concetto che indica l’unitarietà dell’essere umano e l’interezza della persona è espresso dalla parola ebraica nefesh. L’anima spirituale, neshamà, è pura, donata dal Creatore e sta a ciascuna individualità mantenerla in stato di purità, attraverso la consacrazione (kedushà) d’ogni momento della vita. Nella struttura materiale del corpo umano è stato soffiato lo spirito (rùach) del Signore, e così la sua anima (neshamà), l’anima pura, è diventata un’unica personalità vivente (nefesh). Così la Tradizione ebraica considera l’uomo, e lo studio e la pratica dei precetti hanno lo scopo di aiutarlo a prendere coscienza di questa sua realtà unitaria.
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