Daniele Scalise
Da ieri è in libreria “I soliti ebrei. Viaggio nel pregiudizio antiebraico nell’Italia di oggi” (Mondadori, 169 pagine, 16,50 euro) dello scrittore e giornalista Daniele Scalise. Il libro racconta le nuove forme di un odio millenario che continua a manifestarsi anche nell’Italia del terzo millennio, a destra come a sinistra, nelle scuole, negli stadi, nelle università, nei media. Quelli che seguono sono alcuni brani del capitolo dedicato all’”odio in rosso”.
In una giornata di marzo del 2004 una letterina plana sulla mia scrivania. Sul Foglio avevo raccontato la storia di Fuad, un giovane omosessuale palestinese costretto a fuggire dai Territori perchè perseguitato dalla polizia arafattiana e dalla sua famiglia. Essere gay, per la cultura araba e palestinese, è considerato un crimine da punire con le torture e la morte. Nella lettera si chiede se io sappia “che Israele è uno ‘Stato’ di merda? ma lo sa che quella è tutta terra rubata ai suoi legittimi proprietari, che sono i palestinesi?? Io amo la Palestina. Non amo i criminali occupanti, assassini e pure ladri (antica tradizione!!). Lei sta con quella gente? Ma non si vergogna? A me del ‘povero’ Fuad non interessa nulla: è certamente un volgare collaborazionista. Pace in Palestina! Processiamo i criminali israeliani (che sono ebrei). Lei è in buona compagnia, con il bulldozer Ferrara, Ottolenghi ecc, ecc. Se ne compiaccia. Un covo filosionista! Io sto con le vittime!”. In calce una firma scarabocchiata e falsa. Esempio sintetico che illustra il disastro culturale, politico e morale in cui si trovano a vivere molti giovani che fanno riferimento ideale alla sinistra.
Dire che i rapporti tra sinistra ed ebraismo italiano siano stati, e continuino ancora a essere, tormentati è dire poco. A ben descrivere quel relazionarsi accidentato, equivoco e spesso molto amaro è stato Maurizio Molinari in un libro (“La sinistra e gli ebrei in Italia. 1967-1993, Corbaccio, 1995) che resta ancor oggi di notevole attualità . […] A completare il ragionamento contribuisce “Gli antisemiti progressisti” (Rizzoli, 2004) di Fiamma Nirenstein, giornalista e donna coraggiosa, che sa scrivere di cose indigeste senza farsi scrupolo per ‘le oziose regole della buona educazione giornalistica e politica. Già nell’ottobre 2003 Nirenstein aveva scritto sul mensile “Liberal”: “Questo nuovo antisemitismo ha un volto che, come quello della Medusa, pietrifica chiunque lo osservi. La gente non vuole ammetterlo e neppure nominarlo perché in questo modo si svela sia l’identità dei suoi sostenitori sia il suo vero obiettivo. Persino gli stessi ebrei non vogliono chiamare un antisemita con il suo vero nome, temendo di frantumare vecchie alleanze. Perché la sinistra ha una propria idea molto precisa su cosa debba essere un ebreo, e se questi non segue le sue direttive, viene immediatamente rimproverato: come osi essere un ebreo diverso da come ti ho ordinato? Combattere il terrorismo? Eleggere Sharon? Ma sei pazzo?”.
La lacerazione tra sinistra ed ebrei ha una data cruciale: il 1967. Ne fu motivo l’indiscussa decisione di Mosca di girare le spalle alla democrazia israeliana e di abbracciare e foraggiare le dittature arabe. Botteghe Oscure si adeguò mentre le eccezioni — valga per tutte quella di Umberto Terracini — furono e rimasero tali e portarono, a chi se ne fece solitario interprete, derisione, sguardi compatiti e un sovrappiù di diffidenza. Antisionismo militante e antisemitismo sotterraneo cominciarono a scambiarsi informazioni tramite una loro tetra osmosi. Lo “slittamento”, come cortesemente viene chiamato quel processo che conduce da uno stato all’altro, è di difficile presa perché capita perfino che il percorso non sia sempre lucido e dritto, malato di ambiguità e di nessi non solo e non necessariamente politici che rimandano a elementi assorbiti nella culla, a scuola, nelle parrocchie, nelle sezioni, nel gergo comune e condiviso.
Non potevano mancare i risultati. Negli anni Settanta e Ottanta i militanti della sinistra extraparlamentare abbracciarono con veemenza la causa palestinese incrociandola con un’ostilità profonda nei confronti di Israele. I giovani dei centri sociali e i militanti noglobal degli anni Novanta e dell’inizio di questo secolo ne hanno rilevato l’eredità. Il processo strisciante di delegittimazione nei confronti di Israele, con le relative formazioni associative che provoca nelle geografie mentali, è stato più volte denunciato. Inutilmente.
La stessa parola “ebreo” continua a essere usata in maniera equivoca: omaggiata meccanicamente e retoricamente quando ci si riferisce alle vittime del nazifascismo, guardata con fastidio se non addirittura con spregio quando legata all’ebraismo vivo, attuale, contemporaneo, un ebraismo che ha voglia di esprimersi, identificarsi, qualificarsi come tale, un ebraismo che rivendica il diritto di vivere, ragionare, muoversi, stabilirsi e sentirsi al sicuro.
Nei giovani scapestrati sessantottini, ma anche in quelli più severi e colti legati all’allora partito comunista, era diventato naturale esercitare un lungo e irriducibile disdegno nei confronti di un popolo, quello israeliano, che rappresentava il nemico tout court, alleato di un imperialismo – quello americano — da combattere con tutte le armi.
In quelli del pacifismo bendato poco è mutato. Bandiere con la stella di Davide e quelle a stelle e strisce vengono bruciate sui roghi di piazza mentre lungo i cortei garriscono quelle palestinesi e cubane. Militanti che invocano la pace a tutti i costi non trovano imbarazzante intrupparsi con chi scende per strada impersonando i kamikaze manifestando così una sgomentevole adesione ai cultori della morte.
Forse a qualcuno potrà far sorridere che un gruppuscolo come il cosiddetto partito marxista-leninista italiano con tanto di sede centrale a Firenze, dichiari apertamente che […] “l’identificazione fra ebraismo e sionismo è uno dei pilastri ideologici su cui poggia la propaganda sionista per giustificare i suoi crimini”. Eppure basta fare la prova e sottoporre tali affermazioni, non firmate, a chi si dichiara di sinistra, a qualcuno di quel popolo che frequenta sezioni di Rifondazione, che legge il Manifesto o Liberazione o anche la Repubblica, che diligentemente scende in piazza ogni primo maggio, che comunque condivide, dice di condividere quella sensibilità comune appunto “de sinistra”. Gente spesso generosa, convinta, di buoni propositi, sicuramente e sinceramente disinteressata. Chiedete se sottoscriverebbe quelle affermazioni. Troverete più conferme del previsto.
Gli sforzi, per altro encomiabili, di alcuni alti dirigenti della sinistra, non sembrano aver molto influito sul tessuto culturale di chi milita in quell’area politica. Se nel 1991 l’allora segretario del partito democratico della sinistra Achille Occhetto di chiarò all’Unità, organo storico del suo partito, che “il sionismo è un movimento di liberazione nazionale, che affonda le sue radici anche nel movimento operaio, ma di questo la sinistra ha perduto memoria”, era però forse fuori tempo massimo quando sostenne che “l’immagine di un Israele nemico della pace, quando non ‘razzista’ o ‘imperialista’, ancora diffusa in settori della sinistra e del movimento pacifista, esce dunque definitivamente dal bagaglio politico del Pds”. Quando nel marzo del 2004 il presidente dei Ds, Massimo D’Alema, affermò che “l’antisionismo non può essere il tratto di una cultura democratica e di sinistra” perché “Israele è un fattore di civiltà e di democrazia in medio oriente, uno stimolo alla modernizzazione”, forse non si rese conto che i suoi elettori, almeno su quello, non l’avrebbero seguito.
[…] Negli ultimi quarant’anni in Italia si sono registrati diversi episodi di violenza contro membri o simboli della Comunità ebraica rubricabili sotto la voce “nuovo antisemitismo”. Tra i primi, il 25 febbraio 1970, alcuni extraparlamentari di sinistra aggredirono un gruppo di studenti israeliani a Bologna. Nell’autunno del 1982 è successo di molto peggio: quella stagione gli ebrei italiani la ricordano ancora con un filo di terrore e di rabbia.
La notte tra il 30 settembre e il primo di ottobre una bomba era esplosa davanti alla Comunità ebraica di Milano. Alle 11,55 di sabato 9 ottobre un commando di terroristi arabopalestinesi ed europei assaltò la sinagoga romana in via Catalana con mitra e bombe a mano, ferendo 35 fedeli e uccidendo il piccolo Stefano Tachè. Una ventina di giorni dopo alcuni militanti dei Gruppi comunisti metropolitani — una delle tante sigle dell’estremismo politico che affollavano quegli anni —marciarono sulla sinagoga di via Garfagnana, sempre a Roma, e sul cancello impennarono la scritta: “Bruceremo i covi sionisti”. L’ultimo giorno di quell’anno di lutto il presidente della Repubblica Sandro Pertini si chiederà infastidito: “Ma cosa vogliono questi ebrei?”.
Due decenni dopo la musica non cambia. Nel 2002 Guido Sacerdoti, ordinario di biochimica all’università di Napoli nonché esponente della Comunità ebraica di Napoli e con un passato da militante di sinistra, raccontò stupefatto ai giornalisti un fatto difficile da spiegare: “I Ds di Napoli mi avevano chiesto di fare una conferenza sull’Olocausto, avevamo fissato la data e la sezione in cui avrei dovuto tenere il mio intervento che doveva essere di carattere esclusivamente storico. Ebbene, il giorno prima mi telefona un esponente provinciale diessino che, con un discorso molto tortuoso, mi fa presente che forse quella conferenza, in quella fase della vicenda mediorientale, non era il caso di tenerla, avrei creato qualche problema”.
[…] Il nuovo antisemitismo non risparmia nessuno, nemmeno coloro che si battono per il legittimo riconoscimento dei propri diritti civili. Yasha Reibman, medico psichiatra, è anche il portavoce della Comunità ebraica milanese. Radicale di formazione e militanza, ex consigliere regionale della Lista Bonino, ha, come tutti i radicali, una passione che molti considerano insana: quella per le ragioni degli altri. Anche quelle degli omosessuali. E’ con questo animo che prese parte al Gay Pride del 2002 a Milano.
La manifestazione dell’orgoglio omosessuale che si tiene ogni anno a giugno è spesso corredata non solo da bandiere arcobaleno — che ben prima di assurgere a simbolo del pacifismo “senza se e senza ma” era il segno condiviso internazionalmente dal movimento per i diritti degli omosessuali —, ma anche da vessilli di Rifondazione o dei Ds, dei centri sociali o delle varie organizzazioni politiche, per lo più di sinistra, che in questi ultimi decenni hanno, almeno verbalmente, detto e ripetuto di sostenere le ragioni dei gay.
Yasha Reibman, insieme a un gruppo di amici, commise però un’imperdonabile imprudenza quando decise di scendere in piazza inalberando una bandiera israeliana. “In quei giorni c’erano stati molti attentati in Israele e volevo testimoniare la mia angoscia e la mia solidarietà” spiega. “In corso Venezia un gruppo di una decina di ragazzi dei centri sociali si sono diretti verso di noi e ci hanno strappato le bandiere. Le hanno fatte a pezzi. Appena mi hanno riconosciuto mi hanno sollevato di peso, mi hanno sbattuto contro un muro e hanno cominciato a riempirmi di botte. E’ intervenuto un giornalista del Giorno. Quando poi la polizia è arrivata il gruppetto si è dissolto.” Tra gli aggrediti anche Alessandro Litta, primo dei non eletti della Lista Bonino. Nessuno dei manifestanti sentì l’impulso di intervenire in loro difesa. “Dopo essermi ripreso dallo shock dell’aggressione ho continuato a manifestare nel corteo con gli omosessuali. Sono arrivato fin sotto al palco e ho chiesto di poter parlare, di poter raccontare l’aggressione che avevo subito. Niente da fare. Dal palco il segretario dell’ Arcigay Sergio Lo Giudice condannò l’accaduto. A me, però, non diedero la parola”.
[…] Se qualcuno era poi convinto che le razze non esistessero, che fossero una fandonia da lugubri ignoranti della destra più becera e che quel termine non potesse essere speso in alcun modo o contesto, sbagliava. Il professor Alberto Asor Rosa, uno dei più stimati pensatori della sinistra, in un libro intitolato “La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana” e pubblicato nel 2002 da Einaudi afferma che: “Gli ebrei, da razza deprivata, perseguitata e decisamente diversa è diventata una razza guerriera, persecutrice e perfettamente omologata alla parte più consapevole e spregiudicata del sistema occidentale”. Continua Asor Rosa: “Gli ebrei hanno rinunciato ai valori della propria tradizione e alla memoria delle proprie sofferenze… hanno perso il carattere di vittime che li ha contraddistinti nella storia”.
[…] C’è di peggio. L’Associazione dei Pari, una casa editrice che ha sede all’interno del centro sociale Gabrio di Torino, nel marzo del 2003 firma un fumetto dedicato alla Palestina libera. Dopo aver spiegato in un editoriale che “le condizioni di vita del popolo palestinese, quotidianamente umiliato e tenuto in stato di reclusione da un potere israeliano che gli nega il diritto di esistere, sono al limite della sopravvivenza per la scarsità dei generi alimentari, per il razionamento dell’acqua, per la carenza di medicinali, attrezzature sanitarie e personale medico specializzato”, i vignettisti per illustrare le proprie tesi non vanno per il sottile. In un Israele popolato da ebrei con il naso adunco, riccioli e cappello da fedeli ortodossi, e loschi figuri occupati a combinare affari, torna un Gesù Cristo un po hippy e un po’ no global, “colui che già una volta non riconosceste e inchiodaste alla croce, razza di birbanti!!!”. Il Jesus Christ Superstar propone agli israeliani il proprio progetto di pace: “Vi dovete fondere con i vostri fratelli in un unico Stato basato sulla fiducia, sulla tolleranza e sul rispetto reciproco”. Alla fine i soldati israeliani, rappresentati come maiali in divisa, lo mettono in croce. Di nuovo.
Rude fondamentalismo cristiano e simboli ripescati dall’iconografia nazistoide vengono utilizzati con disinvoltura da giovani uomini e donne che fanno chiara professione di fede per ideali unanimemente di sinistra. E’ vero: si può considerare come del tutto residuale l’attività di pochi ragazzotti di un centro sociale periferico […] Eppure quella gioventù esprime, magari nella maniera piu primitiva, un’idea che viaggia, che viene da lontano e che non sembra per nulla esaurita, neanche a sinistra.
Un’idea che, per esempio, è entrata a spallate nelle severe, ma evidentemente sguarnite aule dell’università di Pisa alle 5 del pomeriggio del 14 ottobre 2004 quando una cinquantina di studenti del Collettivo autonomo di Scienze politiche e di Università antagonista (di estrema sinistra) ha impedito a Shai Cohen, consigliere dell’ambasciata di Israele a Roma, di tenere una lezione intitolata “Stato democratico in Israele oggi” su invito del corpo accademico. La disavventura la racconta lo stesso Shai Cohen, un gerosolomitano di quarant’ anni con un più che decoroso curriculum diplomatico alle spalle. Dall’agosto del 2002, Shai Cohen è responsabile dell’ufficio per gli Affari politici e le Relazioni esterne dell’Ambasciata d’Israele a Roma.
[…] “Pisa, in fondo, rappresenta un caso di quel fenomeno più ampio che chiamiamo neoantisemitismo e che ci troviamo a dover fronteggiare” dice Shai Cohen. La luce bruna e rosea di un pomeriggio d’inverno che entra dalle finestre del suo ufficio non allenta la drammaticità del racconto. “L’antisemitismo che si ritrova oggi in alcuni paesi europei non è più quello classico, quello, tanto per intenderci, di matrice cattolica. No. Oggi parliamo di un neoantisemitismo che si forma sull’odio verso lo Stato d’Israele, uno Stato che contiene la maggioranza degli ebrei concentrati in un solo paese. Del resto non si può separare Israele dal popolo ebraico. Se non lo si poteva fare prima, ancora meno lo si può fare oggi. Odiare il sionismo, e quel che rappresenta, vuol dire negare il diritto del popolo ebraico di avere una vita normale, un proprio paese, un proprio Stato. negargli il diritto ad autodifendersi”.
Come entra Pisa nella questione? “Quegli studenti pisani non hanno deciso di nascondersi dietro una critica legittima verso il governo israeliano. No. Non hanno usato un gergo politico, un gergo anche propagandistico ma pur sempre legittimo contro il governo israeliano, contro la sua politica nei confronti dei palestinesi. Se avessero fatto una cosa del genere avrebbero potuto perfino mettere in imbarazzo, in difficoltà un diplomatico israeliano come me. Invece no. Loro hanno scelto di attaccare il diritto dello Stato di Israele di continuare a esistere per cui la sola presenza di un rappresentante israeliano all’università di Pisa, che loro evidentemente controllano, appariva inaccettabile”.
Mi racconti di quei cinquantacinque minuti di odio e di paura. “E’ stato un crescendo. All’inizio avevano cominciato con voci basse, dicevano che non avevo diritto a parlare, che loro non potevano nemmeno ammettere che io aprissi bocca”. Cosa pensava in quei momenti? “Pensavo che dopo un poco la lezione si sarebbe tenuta. Che sia pure con qualche prima difficoltà, alla fine sarei riuscito a dire quel che mi ero preparato a dire, quello per cui ero stato invitato. Invece le cose sono andate peggiorando”. Cosa voleva dire? “Il mio intervento era in effetti una lezione e intendevo parlare di Israele non tanto dal punto di vista politico quanto da quello storico. Nel frattempo le voci del gruppo di studenti avevano preso a crescere. I loro volti a farsi sempre più duri. Gli sguardi sempre più minacciosi. Le parole sempre più aspre”.
Quanti erano? “Una cinquantina, di cui dieci molto violenti.” Ragazzi e ragazze? “Sì, di entrambi i sessi”. Quanta gente c’era nell’aula magna? “Un centinaio di persone, professori compresi”. Già, c’erano an che dei professori. Come hanno reagito? Voglio dire: i professori hanno fatto sentire la loro voce, la loro autorità? “Nessuno ha detto nulla. Tutti avevano paura. Diciamolo: erano terrorizzati. C’erano il professor Maurizio Vernassa, docente di Storia e Istituzioni dei Paesi Afroasiatici dell’università che mi aveva invitato a tenere la lezione, e il professor Alberto Massera, in quel momento preside della facoltà, il padrone di casa, insomma. “Solo alcuni studenti, due o tre, hanno avuto il coraggio di contrastare il gruppo. Dopo una mezz’ora eravamo al culmine: le loro voci si erano fatte alte, le minacce si ripetevano, minacce fisiche vere e proprie . Qual è stata la sua reazione? “L’unica possibile: sono rimasto in perfetto silenzio per non provocare gli animi”. Non ha pensato di alzarsi e andarsene sbattendo la porta in faccia al gruppo di studenti e ai professori che prima l’avevano invitata e poi si sono ben guardati dal difenderla? “Anche volendo non avrei potuto. Non c’erano uscite di sicurezza. C’era una porta sola, quella da cui ero entrato e da cui sarei dovuto uscire ma completamente sorvegliata dal gruppo”. Nessuno ha pensato di chiamare la polizia? “Il preside me l’ha detto chiaro e tondo: la polizia non la chiamo. La polizia sta fuori ma io non la chiamo. L’unica scelta per me era quella di rimanere in silenzio, senza aprire la bocca, senza muovere un solo muscolo del corpo e della faccia. Intanto quei ragazzi si sono fatti più vicini. Hanno cominciato a urlare insulti. Mi hanno chiamato ‘assassino’, ‘fascista’, hanno cominciato a urlare ‘Israele boia!’. Dicevano che se avessi aperto la bocca mi avrebbero fermato con la forza”. Come ne è uscito fuori? “Il preside Massera è riuscito ad arrivare a un accordo verbale con questi studenti. Un accordo secondo cui io non avrei parlato, lui non avrebbe chiamato la polizia e loro mi avrebbero fatto uscire senza toccarmi. E così e successo”. Era la prima volta che le capitava un episodio di quel tipo? “Per me era la prima volta ma era anche la prima volta che un diplomatico israeliano non avesse la possibilità di parlare. Casi di contestazione, anche dura, ve ne sono stati. Ricordo, per esempio, che in un liceo di Viterbo, un paio di anni fa, durante il giorno della Memoria mi contestarono senza tuttavia impedirmi di parlare. Un’altra volta a Torino si sono raduna ti fuori dall’edificio dove avrei tenuto il mio intervento. Ma anche lì, sia pure protetto dalla polizia, ho potuto parlare. A Pisa no”.
Le chiedo, se le è possibile, di dimenticare per un attimo la sua funzione diplomatica. Lei, come cittadino israeliano, come ebreo, come ha vissuto quella giornata? “Devo ammettere che durante e dopo questa vicenda sono rimasto molto turbato. Non è facile sentire di essere odiato in quanto israeliano, in quanto ebreo. Quel che mi è successo mi ha fatto capire che il problema non è solo teorico ma è tangibile. Io almeno ho avuto modo di toccarlo”. Pare quanto meno inspiegabile e preoccupante che un’università italiana debba essere considerata off limits per la diplomazia israeliana. “Deve capire che nelle università italiane c’è una presenza molto ampia di studenti arabi e palestinesi. Parte del mio lavoro consiste proprio nel trattare con le istituzioni universitarie. Entro nelle università per dare lezioni, c’e un interscambio di studenti e professori, si tratta di una cooperazione di carattere accademico. Molti atenei italiani hanno paura di invitarci nei campus proprio perché c’è una rilevante presenza pro-araba che potrebbe causare disordini o problemi seri, come a Pisa. Nessun rettore, nessun preside, nessun professore vuole vedere la propria università bollata di intolleranza e allora preferiscono non chiamare un diplomatico israeliano”.
Il Foglio del 20 aprile 2005, pag. II