L’ebraismo non piace? Basta inventarne uno personale a proprio uso e consumo
Giulio Meotti
Sarebbe troppo facile dire che le nuove “Scintille” di Gad Lerner, titolo di un libro ben scritto uscito per Feltrinelli (221 pagine, 15 euro), siano il parto dell’ebraico odio di sé. Il nazismo parlava in modo derisorio di Luftmenschen, dell’ebreo come di una “creatura dell’aria” che non ha casa. E’ giusto e naturale avvicinarsi quindi con pudore alla genealogia diasporica di Lerner. Ma la sua operazione memorialistica ha esiti politici e culturali più che discutibili. In “Tu sei un bastardo”, il suo precedente libro, Lerner aveva fatto sfoggio del meticciato e del rigetto di ogni posizione identitaria. In questo nuovo saggio, dove si definisce “levantino d’Europa”, Lerner non rinnega l’ebraismo, lo celebra piuttosto come qualcosa che ha a che fare esclusivamente con la tolleranza, con la mescolanza delle etnie e delle religioni (leggi islam), con l’ibridazione delle culture, con l’idea d’esilio, di diaspora e di meticciato appunto.
Lerner offre la propria saga familiare come un’esortazione al cosmopolitismo, che pure è uno dei tratti che hanno reso grande la cultura ebraica del Novecento, e nei secoli. Ma così facendo, guardando in dispitto l’esito sionista dopo la Shoah, Lerner si pone sotto la costellazione di quella stessa catastrofe che ha sostituito al ghetto le camere a gas. Nulla dalle sue pagine lascia trapelare amore e orgoglio per come la costruzione esclusiva del monoteismo giudaico abbia partorito democrazia e diritti umani in occidente. Non c’è alcun allarme sulla volontà iraniana di incenerire Israele né sull’odio nuovo e antichissimo che investe anche gli ebrei della diaspora (leggi la strage di Mumbai). Non c’è compiacenza per il grado di felice integrazione di etnie lingue ed esperienze diverse in Israele, per la forza delle sue istituzioni e della cultura laica e religiosa. Non c’è traccia di generosità verso l’esperimento sionista, un paese che respira fra la vita e la morte da sessant’anni e che fin dai propri albori ha combattuto duramente restando una grandissima democrazia. Non c’è compassione né comprensione verso l’esercito israeliano, l’unico al mondo che consenta per statuto di disubbidire a un ordine disumano.
È in un esotico altrove che Lerner colloca la propria biografia. umana e familiare. Il titolo del libro deriva da “gilgul”, che secondo la Qabbalah ebraica è il frenetico movimento delle anime vagabonde. Con queste “scintille” che ripercorrono la propria storia dalla Polonia al Libano, Lerner accusa Israele di “inadeguatezza” e compie una sottile inconfessata apostasia rispetto a questo paese e al suo destino, secondo lui vittima della “nozione soffocante di nemico”.
Nel libro Lerner se la prende anche con chi, come le famiglie israeliane vittime degli attentati, ha voluto mostrare le immagini di morte dopo che sono passati i kamikaze. “La morbosità con cui si celebra il dolore è insinuante fino a obnubilare i sensi”, scrive Lerner, che vorrebbe dissacrare la sofferenza delle migliaia di civili assassinati dai terroristi suicidi. “I servizi fumati trasmessi alla televisione dopo gli attentati indugiano sulle membra violate dei cadaveri, sulle pozze di sangue, sui feriti che urlano”. L’avventura sionista, una benedizione per gli ebrei e l’occidente, non ha registrato una vocazione unanime all’interno dell’ebraismo. Ma i modelli che Lerner offre al lettore, per quanto tutti dignitosi, servono solo a esaltare “la crisi del sionismo”. Come il marxista messianico Ernst Bloch, che d’Israele diceva, forse allarmato dalla sua trasformazione in stato-guarnigione: Che senso ha rivoluzionare l’ebraismo per partorire una Serbia o un Montenegro in più?”. “Chi nel Novecento si è rifiutato di assumere come finalità determinante dell’ebraismo la rinascita dello stato ebraico ne è stato ricambiato con una vera e propria estromissione”, lamenta Lerner.
E allora personaggi da emulare, nella loro tragica grandiosità, sonò il colonnello Eli Geva, che chiese di essere rimosso dal comando militare israeliano perché rifiutava la presa di Beirut. Oppure Shlomo Schmalzman, che fece uno sciopero della fame allo Yad Vashem per protestare contro “l’uso strumentale” che il primo ministro Menachem Begin faceva dell’Olocausto per giustificare l’intervento militare in Libano. O l’insorto Marek Edelman, uno dei comandanti dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia, un uomo meraviglioso, un’icona del Novecento, ma anche l’unico dei comandanti di quell’insurrezione a non emigrare in Israele (Yitzhak Zuckerman, Zivia Lubetkin, Simha Rotem e Israel Gutman sono andati tutti a edificare lo stato ebraico). Lerner “dimentica” che in quel ghetto furono uccisi anche decine di combattenti ebrei revisionisti e borghesi, sloggiati dalla storia perché considerati “di destra”.
I santini di Lerner sono radicalmente altro rispetto a Israele, sono gli eretici e gli eterodossi, figure che a Gerusalemme oggi suscitano un certo sarcasmo, se non rabbia. Come Avraham Burg, l’ex speaker del Parlamento israeliano divenuto saggista di successo, per il quale “Israele è già morto”, “lo stato ebraico è un’idea che non può funzionare” e “la fine del sionismo è prossima”.
È la demografia, non le chiacchiere, a sconfessare Lerner. Lo studioso Sergio Della Pergola ha spiegato che entro poco più di mezzo secolo, l’80 per cento dei bambini ebrei sotto i quattordici anni vivrà in Israele. Se la diaspora sta per essere mangiata dall’assimilazione, Israele, nonostante l’atomica iraniana e la sollevazione islamista che ne lambisce i confini, contiene un elemento di grande speranza. Sarà pure una fenice risorta dalle ceneri con artigli d’acciaio, ma dopo Auschwitz, Sion è stata ricostruita. Gli ebrei ci sono. Ci sono anche le scintille rarefatte di Gad Lerner.
IL FOGLIO 14/11/2009