Intervista a Philip Roth sul suo ultimo romanzo “Indignazione”.
Antonio Monda
New York – Incontro Philip Roth nella sua casa dell’Upper West Side, un appartamento di un’eleganza asettica e inaspettatamente pieno di apparecchiature tecnologiche. È appena tornato dalla casa in Connecticut, dove ha passato l’estate a completare il nuovo romanzo, in uscita a breve in America con il titolo The Humbling, e ad iniziarne uno nuovo, al quale non ha ancora dato il titolo.
Nel corso del nostro precedente incontro, mi ha spiegato che sente il peso della vecchiaia, ed un senso di vuoto per i sogni traditi e le persone care scomparse. Questa produzione costante di libri sembra rispondere innanzitutto ad un sentimento di fallacia, ma è anche il modo orgoglioso di definire se stesso, e di eternare attraverso la creatività la propria concezione dell’esistenza. Gli dico che voglio parlare anche delle polemiche sulla presunta insularità della cultura americana, e lui reagisce con un sorriso pieno di stupore. “Non riesco a capire quale sia l’argomento di questa polemica”, mi spiega scuotendo la testa. “A volte c’è da chiedersi persino come sia possibile che si discuta di una cosa del genere. Ma preferisco parlare di quello che scrivo, e vedrai che finiremo per toccare anche quell’argomento”.
L’indignazione di cui parla il titolo dell’ultimo romanzo nasce da un disincanto amaro: Roth è uno scrittore troppo lucido per cedere alla debolezza del rimpianto, ma le pagine lasciano trasparire un anelito struggente perché la vita possa essere altro che un mistero doloroso. “Molti mi hanno chiesto come mai abbia scritto all’improvviso di un giovane”. Non aggiunge altro, ma si alza dalla poltrona per mostrarmi una foto che lo ritrae in uniforme militare, scattata all’epoca della guerra in Corea. È il periodo in cui è ambientato il romanzo, e nella foto Roth ha l’età del protagonista Marcus Messner.
“Negli ultimi tempi ho scritto sempre di persone anziane”, racconta mentre fissa la foto, “e ti confesso che ne ero un po’ stanco. Questa volta ho voluto raccontare una storia di inesperienza e disperazione all’epoca di un periodo storico che tendiamo a dimenticare. Io venni arruolato in quel terribile conflitto, ma, fortunatamente, la guerra terminò prima della mia partenza”.
Come mai ha voluto raccontare ancora una volta il racconto di un’iniziazione erotica e di conflitti con l’ambiente accademico?
“Mi interessava raccontare la repressione sessuale precedente agli anni Sessanta. L’ambientazione in un college offre anche altri elementi di repressione e conflitto, anche se devo dire che come docente ho avuto un’esperienza interessante”.
Dubito che qualcuno abbia osato crearle dei problemi.
“Su questo non vorrei commentare. Ti dico solo che mi è stata lasciata libertà quando ho deciso di avviare un corso su Bellow e Kafka. Due scrittori analizzati per contrasto. E lo stesso per quanto riguarda i corsi sugli autori francesi come Mauriac, Celine e Gide”.
Nello scontro con il decano dell’università, lei definisce “indignazione” come la parola più bella della lingua inglese.
“Non lo penso necessariamente anch’io, ma ritengo che fosse giusto per la psicologia del mio protagonista, ed appropriato per quel momento di tensione”.
Marcus è un ebreo che si trova in un ambiente protestante conservatore nel cuore del midwest, e si innamora di una “shiksa”, una “gentile”.
“Olivia è in primo luogo una ragazza bella, affascinante ed uno spirito libero. Quando ho cominciato a scriverne non avevo in mente che potesse avere elementi così drammatici. Il personaggio si è sviluppato insieme al romanzo, ed è arrivato alla disperazione”.
La crescita è sempre un atto di rottura?
“Non sono così categorico. Dipende dai singoli: dai genitori e dai figli”.
Lei sostiene che sia fondamentale lottare e indignarsi, ma nei suoi libri le esperienze arrecano solo altro dolore.
“È fondamentale lottare per la libertà, che è un valore irrinunciabile, ma come tale porta con sé problemi, ferite e dolori. Tuttavia le esperienze portano anche piacere, e la vita quotidiana ci insegna anche il contrario: molte persone non lottano affatto e sembrano felici di non cambiare”.
Marcus si mette nei guai quando rifiuta di frequentare la funzione religiosa, spiegando che la scelta non nasce dal fatto che è un ebreo osservante, ma un ardente ateo. È una definizione che va bene anche per lei?
“Io sono ateo, ma non sento il bisogno di usare il termine ardente. Il giovane Marcus evidentemente ne ha bisogno”.
In The Humbling, il romanzo che ha appena consegnato alle stampe, il protagonista è nuovamente una persona non giovane.
“È un attore teatrale di sessantaquattro anni che scopre di non saper più recitare. È una storia sul dramma di scoprire di non avere più un talento”.
Un’altra vicenda amara, segnata da una perdita.
“Vuoi che ti dica che vedo così la vita?”.
Bastano i libri per dirlo. Posso chiederle ora cosa pensa della polemica sulla presunta insularità della cultura americana?
“È una polemica talmente ridicola che non riesco neanche a capirla. Io ritengo che la letteratura americana, dal dopoguerra ad oggi, sia stata la più importante del mondo, con autori come Faulkner, Hemingway e Bellow. E anche ai nostri giorni abbiamo scrittori di prim’ordine come Don DeLillo, E. L. Doctorow, Cynthia Ozick, Joyce Carol Oates e Toni Morrison. Mi sento in compagnia di colleghi eccellenti”.
Lei non hai mai nascosto una sorta di distacco nei confronti degli adattamenti ai suoi film.
“Non è un segreto che non sono entusiasta di quello che è stato fatto con i miei romanzi. Ma voglio esser chiaro: ritengo che il cinema sia una forma di arte non inferiore alla letteratura, e penso che esistano buoni e cattivi film come buoni e cattivi romanzi. Ad esempio ho visto recentemente L’heure d’etè di Oliver Assayas che mi è sembrato molto bello”.
Un anno fa mi ha detto che auspicava la vittoria di Obama. Oggi si ritiene soddisfatto?
“Molto. Sono assolutamente deliziato da quello che sta facendo e tentando di fare”.
L’Espresso (14 settembre 2009)