L’intervista di Elena Loewenthal con Amos Oz. Dopo che la generazione dei padri ha lottato, e spesso perso la vita, per avere finalmente dei “confini” ebraici, ora la generazione dei figli si può permettere di sognare “un mondo senza confini”.
Il suo ultimo romanzo, Giuda (Feltrinelli, pp. 329, 15,30), esce in questi giorni in Israele e in Italia. Amoz Oz è felice di questa coincidenza perché ama il nostro paese e ne è ricambiato. A più di dieci anni di distanza dall’indimenticabile Una storia di amore e di tenebra, che nel nostro paese ha venduto più di un milione di copie, lo scrittore israeliano torna ai suoi lettori con un romanzo di grande respiro. Pieno di malinconia e di ombre, di voci e silenzi. Un grande romanzo per il quale non si esita a usare la parola «capolavoro» perché non gli manca nulla per stupire e coinvolgere. Ora, dalla sua casa di Tel Aviv, Oz aspetta con serenità ma anche un poco di trepidazione le impressioni di critici e lettori, tanto in Israele quanto in Italia. Anche Giuda è in fondo una storia «di amore e di tenebra» che intreccia una vicenda personale e quella nazionale. Quali sono le sue note dominanti? «È una storia molto intima, da teatro da camera. Ci sono tre personaggi e molti spettri, che vivono nell’ultima casa di Gerusalemme, in fondo alla città. Siamo nell’inverno tra il 1959 e il 1960.
Sono persone molto diverse fra loro: Shmuel ha 23 anni, è un rivoluzionario che vuole capovolgere il mondo e all’inizio ama perdutamente Che Guevara ma alla fine del libro un po’ meno. Gershom Wald è il suo contrario: un vecchio invalido disilluso, contrario a tutte le rivoluzioni, alla sola idea di redimere il mondo, ma non certo perché sia buono, anzi. Fare, secondo lui, significa irrimediabilmente guastare. Fra i due c’è Atalia, una donna di 45 anni, molto affascinante e sensuale ma delusa dalla vita. Ce l’ha con il mondo e in particolare con il genere maschile. Il romanzo è in fondo la cronaca di un miracolo: alla fine del libro i tre si vogliono bene. Non ero sicuro di riuscire a far succedere questo piccolo miracolo, quando ho cominciato a scrivere. Sono contento per loro, che sia successo. Sapevo che sarebbe stato difficile. Shmuel, come Giuda, è un traditore. Tradisce i genitori rifiutandoli, i professori abbandonando la ricerca. Ma in quei quattro mesi d’inverno impara ad amare la mamma. E ci va anche a letto, cosa che in fondo capita più o meno a tutti, idealmente…».
In Giuda Gerusalemme torna al centro della storia. Che cosa è per lei questa città?
«Almeno sette-otto dei miei romanzi si svolgono qui, più o meno a metà del secolo scorso, quando la città è divisa fra Israele e Giordania, è accerchiata dal filo spinato e dalle mine. È una città dalla frontiera invalicabile. Assediata dal nemico, malinconica come poche altre. Ma è anche la città dei sogni di redenzione. A Gerusalemme tutti sono anche un po’ profeti e un po’ messia».
Al centro del romanzo, cominciando dal titolo, c’è il tema del tradimento. La sua scrittura esplora sempre i sentimenti più ardui da descrivere così come da confessare. Quale, per l’appunto, il tradimento. Perché l’ha scelto come filo conduttore? «
Sono sempre stato attratto dai traditori. Mi affascina la persona che gli altri chiamano “traditore” perché anticipa i tempi. È l’uomo che cambia mentre gli altri no e non capiscono, anzi temono il cambiamento. Anch’io sono stato chiamato e ancora mi chiamano traditore. Ma considero questo appellativo alla stregua di una medaglia! E sono in ottima compagnia, sa. Il profeta Geremia è chiamato traditore. Come Abramo Lincoln che ha abolito la schiavitù. Churchill che ha fatto a pezzi l’impero britannico e De Gaulle che ha posto fine al colonialismo francese sono stati accusati di tradimento. Per non parlare di Ben Gurion che nel novembre del 1947 ha accettato la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo. Anwar el-Sadat, che ha fatto la pace con Israele, è stato ammazzato perché lo consideravano un traditore. Begin che ha restituito il Sinai all’Egitto, Rabin che ha fatto la pace con i palestinesi: anche loro sono stati chiamati traditori. In breve, è un club di cui sono fiero di fare parte. E in questo mio romanzo, tra i fantasmi che abitano l’ultima casa di Gerusalemme, c’è anche Giuda Iscariota, l’oggetto della tesi di laurea che Shmuel lascia bruscamente a metà. Giuda è un traditore, ma è anche il più fedele discepolo di Gesù. È, soprattutto, colui che lo ama più di ogni altro».
A proposito di fantasmi presenti – e assiduamente – nella casa di Gerusalemme in cui si svolge la storia, ce n’è uno nonmeno ingombrante. È il padre di Atalia, Shaltiel Abrabanel. Politico, pensato re eccentrico, teorico del sionismo o forse soprattutto sognatore?
«Shaltiel è molto vicino a Giuda, ma ancor più a Gesù: crede fermamente nell’amore universale. Auspica un mondo senza Stati e senza confini nazionali. Fatto di molte lingue, molte culture, molte comunità, ma senza eserciti né frontiere. È utopia, questa? La risposta la dà sua figlia Atalia, che di lui dice: non apparteneva a questo mondo. È vissuto troppo presto o troppo tardi. Per parte mia, sarei felice di sapere che i miei pronipoti e i nipoti dei miei nipoti vivranno in un mondo senza confini, in un mondo non dissimile da quello che Shaltiel ha sognato fino alla fine della sua travagliata vita, ancora una volta segnata dalla macchia del “tradimento”. Ma, venendo a temi più concreti e presenti, se mi chiedete: è possibile mettere nello stesso letto palestinesi e israeliani? Dire loro: adesso piantatela di odiarvi e amatevi? La risposta è chiara: no. Per ora no. La realtà non risponde al sogno. Per ora no».
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