In occasione della parashà di Noach – Noè che leggeremo questo shabbàt
Alfredo Mordechai Rabello
L’opinione del Maimonide sul passaggio all’idolatria dell’umanità
Per chi fa propria la tradizione biblica della creazione del mondo e di un unico uomo da parte del Signore, uomo creato ad immagine divina, uomo con cui D-o stesso ha parlato direttamente, si pone il problema di come si sia arrivati, noi uomini, a perdere la conoscenza di D-o e si sia passati all’idolatria. Il problema è stato trattato dal grande posek (decisore) e filosofo ebreo medioevale, Mosè Maimonide (1138-1204) nella prima parte del suo Mishné Torà, nel libro della conoscenza, regole sull’idolatria:
“Al tempo di Enosh [figlio di Shet, nipote di Adamo] gli uomini commisero un grande errore [Ci si basa sul verso 26 del capitolo 4 della Genesi, come interpretato dai Maestri del Talmud: “allora si incominciò a chiamare nel nome degli dei”, cioè – spiega il commentatore della Bibbia, Rashì (1040-1105) – si incominciò a vedere nell’uomo e negli astri degli esseri superiori, divini] e venne meno la saggezza dei saggi di quella generazione ed Enosh stesso era fra coloro che sbagliarono [divenendo, cioè idolatra, come dice il Talmud, Shabbat,118 b].
E questo era il loro errore, dicevano: dato che il Signore ha creato le stelle e gli astri per dirigere il mondo, e li ha posti nelle parti eccelse ed ha dato loro onore, e sono come servi che servono davanti a Lui, essi sono degni di essere esaltati e lodati e bisogna onorarli.
E questo è il volere di Dio, benedetto Egli sia, fare innalzare ed onorare chi ha [Lui stesso] innalzato ed onorato, così come il re vuole che siano onorati i suoi servi, che stanno davanti a lui, e questo è l’onore del re stesso. Dato che hanno pensato in questo modo hanno incominciato a costruire agli astri dei santuari e ad offrire loro dei sacrifici, e ad onorarli e ad esaltarli con parole e ad inchinarsi dinanzi a loro – per raggiungere il volere del Creatore e concigliarsi [la Sua benevolenza, attraverso tali intermediari] secondo la loro idea stolta. È questo l’inizio dell’idolatria…”.
Basandosi poi sui versetti del profeta Geremia X,7-8 spiega il Maimonide:
“Cioè a dire: Tutti riconoscono che non vi è altro D-o, ma il loro errore e la loro follia consiste nel credere che nella vanità (del loro culto degli astri) Tu metti la Tua volontà.”
Nei paragrafi e capitoli successivi spiega il Maimonide come l’Umanità abbia proseguito ad allontanarsi da D-o, pur credendo di farne il volere, fino a che “nacque la colonna del mondo, nostro Padre Abramo”, che ritrovò il Signore e se ne fece servitore e portatore della Sua verità nel mondo, fino a tralasciare questa verità come eredità al popolo di Israele, suo discendente.
I sette precetti noachidi
Secondo l’interpretazione talmudica nella Bibbia sono contenuti anche i cosiddetti sette precetti noachidi [in ebraico: shéva mizvot bené Noach], sei dati da D-o ad Adamo e poi a Noè e che, come tali, debbono essere osservati da ogni uomo o donna, dall’umanità intera, discendente, appunto, da Adamo, il primo uomo creato da D-o e da Noè, unico susperstite dal diluvio universale[1]. Tali precetti sono: 1) il divieto d’idolatria; 2) il divieto di bestemmia o blasfemia; 3) il divieto di omicidio; 4) il divieto di incesto e dell’adulterio; 5) il divieto di furto e rapina; 6) l’obbligo di stabilire dei tribunali che assicurino l’ordine, la giustizia e assicurino il rispetto di tali norme; 7) (aggiunto questo a Noè ) il divieto di mangiare un arto tratto da un animale vivo [Se ne veda l’elenco in Toseftà Avodà Zharà 8:4 e Talmud Babilonese Sanhedrin 56 a].
Fin dai primi capitoli della Genesi i Maestri hanno voluto far presente che la Torà è fonte di norma, per il mondo e per Israele; il discorso, la lezione tenuta oralmente, dovevano basarsi su una parola del testo, su un particolare linguistico che permettesse a chi rileggeva il testo scritto di ricordarsi la “lettura” fatta dai Maestri e la norma di Halachà che ne era stata fissata.
L’opinione di Elia Benamozegh sull’origine della umanità (Adamo nelGan Eden) e sul suo compito finale
Rifacciamoci ora a quanto scritto dal Rabbino livornese, Elia Benamozegh (1823-1900). Nel suo studio La Resurrezione secondo la Bibbia il Benamozegh si sofferma sui primi capitoli della Genesi:
“Ma parliamo intanto dell’uomo solo. E domandiamo: è possibile che lo scopo da D-o propostosi, non sia mai raggiunto, che la creatura da Lui immaginata, non debba giammai esistere, che le condizioni favorevoli all’uomo elargite e perdute per sua colpa, non debbano mai essere riconquistate? … Non si comprenderebbe questo racconto d’un bene perduto, se non per essere incitati a rientrarne in possesso. Perchè queste rivelazioni, questi precetti, questa attenta previdenza, questa direzione continua di cui l’uomo è ormai oggetto, se non per farlo risalire a passo a passo, col sudore della sua fronte, alle altezze serene, donde fu precipitato, se non per fargli riconquistare, con l’educazione, l’espiazione e la lotta, dopo il peccato, quel che egli possedeva nel suo stato d’innocenza avanti del peccato? Un antico cabbalista, R. Menachem Recanati, l’aveva già notato nel suo Behur ‘al Hatorà: Prima di abbandonare la storia del Paradiso, osserviamo la causa per cui l’uomo ne e` cacciato, affinche’, dice il testo: l’uomo non stenda la mano all’albero di vita, e mangiando i frutti, non viva eternamente. Ecco, dunque:
1) l’attitudine dell’uomo a riconquistare la sua prerogativa antica;
2) e infine, se lo scopo che Idd-o s’è proposto nella creazione, deve essere raggiunto, bisogna che il frutto dell’albero di vita sia mangiato, tutto il contrario di quanto resulta dall’apparenza della narrazione. Ciò si fa chiaramente comprendere nel libro dei Proverbi. La legge, la scienza, ecco l’Albero di Vita che bisogna cercare, e il frutto del giusto è il frutto dell’albero di vita. Si paragonino a questi passi tutti quegli altri, senza numero, dove la legge, la scienza si dice concedere la vita, e ci si persuaderà che, pur significando, senza dubbio, la vita presente, si vuole esprimere la vita, la vita in generale, di cui il vivere presente è solo una fase e una conseguenza.” [E. Benamozegh, Scritti scelti, per cura di Alfredo S. Toaff, Roma, 1955,pp.74 ss.]
Appare evidente, per il Benamozheg, non solo l’unitarietà del genere umano e quindi l’universalita` del messaggio biblico dei primi capitoli della Genesi,compresi i precetti noachidi, ma anche l’eterna attualità del messaggio biblico ed il dovere dell’umanità tutta di cercare di applicarlo: tale dovere, ci dice Benamozegh, non e` limitato nel tempo.
Le fonti ebraiche parlano di una comune conoscenza da parte del genere umano tutto, proveniente da Adamo, del Signore e del Suo volere; anzi, secondo i Maestri dell’Ebraismo la legislazione divina universale inizia con i comandi del Signore ad Adamo, e si completa con la legislazione noachide, nell’ambito del patto stabilito dal Signore, unico D-o di Adamo e Noè, con Noè stesso (Genesi,IX, vv.8-17); risulta quindi evidente che quanto era stato comandato a Adamo prosegue a aver valore anche per Noè ed i suoi discendenti, cioè tutti gli esseri umani (in ebraico: benè adam, cioè figli dell’uomo, figli di Adamo); i comandi successivi non vengono quindi ad abolire la validità dei precedenti comandi divini.
Bisognerà aspettare la venuta di Abramo per avere una legislazione particolare per Abramo e la sua discendenza,un patto; tale patto, però, si aggiunge alle norme precedenti, così come la Rivelazione di D-o sul Sinai prosegue il patto di Abramo; scrive a tal proposito di nuovo Elia Benamozegh:
“… Pensate a quegli altri precetti che lo stesso Mosè confessa originati e praticati dai padri antichissimi, la circoncisione data ad Abraham, il lavoro imposto a Adamo, il dovere di prolificazione nato coll`uomo”.
I Maestri dell’Ebraismo hanno effettuato, nel Midrash Echà, sulle lamentazioni di Geremia e a commento di un passo di Osea, un interessante parallelismo fra la cacciata di Adamo dal Gan Eden, dopo il peccato e la cacciata dei figli di Israele dalla terra d’Israele per aver trasgredito il patto. Questa trasgressione, ci ammonisce il Rav Avraham Kook si può avere anche quando “il timore di D-o viene ad eliminare la morale naturale dell’uomo, ché allora non è più puro timore del Cielo”.