Benedetto Carucci sul libro di Giovanni Paolo II
IL TOTALITARISMO, IL MALE E LE DIFFERENZE SULLA REDENZIONE
Roma. Il rabbino Benedetto Carucci è considerato uno dei migliori talmudisti italiani. Ma per dire cosa pensa del libro del papa, “Memoria e identità” (Rizzoli editore), che anche lui ha letto per il Foglio, non sembra ricorrere alle mille destrezze talmudiche dell’interpretazione infinita. “Devo essere sincerissimo? Devo dire che il libro non mi ha appassionato. Da un lato riporta moltissimi elementi storico-teologici, e affronta alcune grandi questioni. Però, sarà forse per l’approccio esegetico della tradizione ebraica cui sono abituato, devo dire che non mi sembra abbia un gran fuoco”.
Nasce spontanea la domanda sulla differenza d’approccio che separa ebraismo e cristianesimo: “Nell’approccio ebraico – risponde Rav Carucci, che oltre a essere preside della scuola ebraica di Roma, è anche docente di Esegesi biblica e letteratura rabbinica al Collegio Rabbinico, e professore in visita alla Pontificia Università Gregoriana – il modo di far parlare il testo è il fondamento per dire le cose. Il Papa, da parte sua, utilizza frequenti citazioni bibliche, tratte sia dal Nuovo sia dall’Antico Testamento, ma la struttura rilevante della sua argomentazione si fonda su una serie di posizioni teologiche classiche e su documenti più recenti, che possono essere sia le sue stesse encicliche sia quelle di pontefici precedenti sia le dichiarazioni dei concili. La sua, insomma, è un’esercitazione teologica. La tradizione ebraica, lavorando sugli stessi elementi, al di là di conclusioni simili o divergenti, avrebbe proposto un’analisi meno strutturale, meno teologica, per far parlare il testo”.
Prima di Cartesio la Torre di Babele
Inevitabile chiedere un esempio. E l’esempio del rabbino Carucci riguarda il tema del limite, il limite al male. “E’ un tema che il Papa affronta nel suo libro. Quando l’uomo scrolla da sé questo limite, diventa portatore di male. Io penso che su un tema simile si possano fare parlare i testi biblici. Bisognerebbe riflettere per esempio sull’episodio della Torre di Babele, che sarebbe un ottimo argomento. Quando l’uomo vuole farsi un nome, e costruire una torre che arrivi fino al cielo, mira in realtà a sostituirsi a Dio, e questo suo progetto è già per alcuni versi un progetto totalitario, come indica il fatto che all’inizio del testo è scritto che l’umanità parlava un’unica lingua. Il progetto totalitario dunque è un progetto in cui l’uomo, delirando, tende a sostituirsi a Dio, per essere l’arbitro dell’intero sistema. La conclusione è la confusione del linguaggio, ovvero la negazione della totalità”.
Dunque il rabbino ricorre all’esegesi biblica e spiega il male nel mondo con la pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio. Il Papa invece privilegia un approccio storico-filosofico per concentrarsi sulla tradizione cartesiana e i danni del soggettivismo. “In effetti, scrive il Papa all’inizio del suo libro: ‘A Cartesio l’esse apparve secondario, mentre il cogito fu da lui giudicato primordiale’. Da qui parte tutta una trama di riflessioni che riprende le fila della tradizione filosofica occidentale, coll’abbandono della filosofia di san Tommaso d’Aquino e l’illuminismo come punto di rottura, che certo è comune anche alla tradizione ebraica. E’ chiaro, però, che l’ebraismo resta un po’ fuori dalle linee della riflessione filosofica, perché gli ebrei sono separati dalla società, e la riflessione ebraica contemporanea a Cartesio prende tutt’altre strade. Non c’è insomma una ricaduta immediata della modernità nel pensiero ebraico. Le categorie di pensiero dell’ebraismo, almeno sino alla Rivoluzione francese, continuano a essere quelle tradizionali. Sicché, l’influenza del razionalismo filosofico nel pensiero ebraico è meno forte di quanto non sia l’intreccio della storia, della teologia e del pensiero cristiano”.
Il Papa parte dal razionalismo di Cartesio per arrivare alle ideologie totalitarie, nazismo e comunismo. E’ plausibile dal punto di vista ebraico questo collegamento? “Non è detto che la rottura sia il razionalismo. L’origine del totalitarismo per noi è da rinvenire nel modello babelico. Nella divinizzazione dell’uomo. Quando l’uomo si scambia per Dio, scivola verso un modello totalitario. Se volessi usare categorie interne alla tradizione ebraica classica per spiegare la deriva totalitaria, userei quella di idolatria. Categoria che nel suo cuore profondo non è tanto l’adorazione di un oggetto, quanto l’adorazione dell’uomo che diventa l’arbitro e stabilisce cosa è Dio e cosa non lo è. L’uomo che si scambia per Dio alla fin fine si scambia per un Dio totale, che impone all’altro un modello totalitario”.
Scusi, allora il totalitarismo per voi ebrei è un portato del cristianesimo? “Non voglio arrivare a questa conclusione. La prospettiva cristiana, l’incarnazione di Dio nell’uomo è il messaggio fondamentale su cui il Papa ritorna di continuo. Non direi che sia una premessa del totalitarismo. Certo è che quando il Papa dice l’uomo diventa completamente uomo nel momento in cui si riconosce nella funzione cristica di Gesù, e cita la funzione apostolica ed evangelizzatrice della Chiesa riconoscendo a essa un ruolo chiave, in particolare nella storia della Polonia, quando testualmente scrive: ‘La risposta della Rivelazione è chiara: l’uomo sin dall’inizio nasconde in sé qualcosa di divino’, fa un’affermazione condivisibile, a partire dal Genesi 1, 27, ossia Dio che crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. Poi però il Papa aggiunge: ‘Nell’attuale economia di salvezza, è solo accogliendo l’innesto nella Vite divina di Cristo che l’uomo può realizzare appieno se stesso. Rifiutando questo innesto, egli di fatto si condanna a un’umanità incompleta’, beh, è chiaro che questo è un punto di complessità per chi, come noi ebrei, in questa funzione di completamento di senso dell’uomo non riconosce la figura di Gesù come Cristo”.
Cristianesimo e totalitarismo
Ma torniamo al nesso tra Dio fatto uomo e totalitarismo. Secondo il Papa, l’uomo rigettando Cristo si è privato dell’umanità piena e ha aperto la strada all’esperienza del male. “Non intendo dire che la figura di Gesù come Cristo e come incarnazione di Dio sia l’equivalente del discorso che facevo prima. Certo, il Papa si riferisce alle conseguenze del razionalismo e dell’illuminismo che hanno allontanato il mistero dell’incarnazione del Verbo. Ma è chiaro che per chi, pur non negando la dimensione divina, non si riconosce in quella funzione costitutiva e sostanziale della tradizione cristiana, l’affermazione reiterata, assolutamente e rispettosamente comprensibile nelle parole del Papa, significa dover accettare di appartenere a un’umanità dimidiata, ancora incompleta e destinata a restare tale”.
Eppure, Giovanni Paolo II è stato il primo pontefice nella storia della Chiesa di Roma a entrare in una sinagoga, a inginocchiarsi di fronte al Muro del Pianto, a chiedere perdono agli ebrei, a stabilire un rapporto speciale con quelli che i cristiani considerano i loro fratelli maggiori. Come giudica le affermazioni del suo libro alla luce di questi fatti? “E’ innegabile la grandissima funzione che questo pontefice ha avuto con l’ebraismo. Nella storia non ha paragoni. I gesti simbolici hanno spesso un valore più forte delle posizioni teologiche. E quelli compiuti da Giovanni Paolo II hanno un’enorme presa nella percezione del fedele cattolico. Negano infatti, più di ogni proclama o di ogni altra affermazione teologica, la possibilità di rigettare, escludere, mettere da parte gli ebrei, com’è successo nella storia. E’ un dato assolutamente grandioso. Un merito sostanziale, una posizione estremamente coraggiosa nella logica di atti simbolici che spesso sono più rilevanti e incisivi di posizioni teologiche. D’altra parte, è chiaro pure che l’ebraismo non può chiedere alla Chiesa di rinunciare alla propria identità. Ma deve mettere in luce i punti di divergenza, che sono anche i punti sui quali a volte varrebbe la pena discutere di più per capire i veri nodi del confronto. Ora, nella prospettiva teologica del Papa e della Chiesa, la centralità della figura di Gesù come Cristo è assolutamente comprensibile e imprescindibile. Ma quando il Papa torna sull’idea che già Adamo è la figura di Gesù come Cristo, rileggendo il testo in funzione dell’inveramento nella seconda fase, è chiaro che l’ebraismo non si può riconoscere in una simile prospettiva. Vorrebbe dire negare se stesso, affermare di essere un’umanità ancora incompleta, che per essere completa dovrebbe riconoscere la figura cristica di Gesù”.
Come valuta la lettura dello sterminio nazista? “Paragonare Shoah e aborto è improponibile. Sono due ambiti di realtà inconfrontabili. La Shoah è un progetto di totale negazione di un’intera collettività. L’aborto, per quanto censurabile, resta una scelta individuale. L’ebraismo, nonostante le varie articolazioni rispetto all’identità umana, ai diritti dell’embrione, del feto e del nato, ha una posizione chiara e netta al riguardo: in linea di principio l’aborto non è consentito se non nel momento in cui si debba scegliere tra la vita della madre e la vita del nascituro”.
Cosa pensa dell’idea del limite al male, posto da Dio, che fra l’altro spiegherebbe la durata del nazismo? “Non riesco a capire in che senso si debba intendere il maligno, il male. Nella prospettiva ebraica, il male è risultato di una scelta dell’uomo. La Shoah in questo senso è una sostanziale responsabilità umana. Il che non significa che Dio si nasconda, non guardi, ma che limita se stesso, per dare autonomia all’essere umano, e dunque la possibilità di infliggere sofferenze. Se Dio non si limitasse, concettualmente – ha scritto Hans Jonas dopo Auschwitz – l’uomo non esisterebbe, perché tutto sarebbe Dio. Ora o tutto è Dio e il mondo è solo apparenza. E allora non si sa da dove venga il male. O Dio onnipotente si limita per un atto di misericordia e di amore, che è all’origine dell’esistenza dell’uomo e pone l’uomo di fronte alla scelta. ‘Ho posto di fronte a te il bene e il male e tu sceglierai la vita’, c’è scritto nel Genesi”.
Oggi più che il dialogo ebraico-cristiano, conta l’ingresso nel Settimo millennio. Qual è il vero significato in termini messianici? “Le fonti rabbiniche classiche, il Talmud è la principale, riflettono molto sul tema del tempo, del tempo storico e la rottura che rispetto a esso rappresenterà la venuta del figlio di David, il Messia, e quello che succederà dopo di lui. Una delle fonti rabbiniche, in effetti, ci dice che il mondo ha una durata di sette millenni. E quindi noi saremmo alla vigilia del Sabato del Mondo. Il settimo millennio sarebbe il millennio sabbatico. Non c’è bisogno di riferirsi a tradizioni mistiche o cabalistiche, basta vedere in che modo la tradizione rabbinica legge la storia. In questo senso, ci sarebbe da fare una riflessione sul tema della redenzione che rientra nella disamina affrontata dal Papa nel suo ultimo libro. Che funzione ha il singolo uomo nel processo di redenzione della realtà? Fra le varie fonti talmudiche riproposte nella tradizione ebraica, ce n’è una che dice che Dio ha stabilito il tempo di venuta del Messia, e comunque il Messia verrà quale che sia il comportamento dell’umanità. Un’altra, invece, sostiene la venuta del Messia come redentore di un’umanità completamente corrotta, in preda a una spaventosa condizione morale. Infine, una terza linea che tende a essere prevalente dice che ormai tutto è legato al pentimento, al ritorno alle buone azioni. Questo equivale a dire che, in un certo senso, è l’uomo, il singolo individuo e la somma dei singoli individui che compongono l’umanità a portare la redenzione. L’umanità prima si redime, prima sceglie la strada del bene e alla fine di questo processo arriva il Messia, il figlio di David. E’ questo un elemento degno di riflessione anche in relazione a quanto scrive il Papa nel suo libro, quando parla di redenzione come vittoria di Cristo sul male data all’uomo non solo come vantaggio, ma come compito. C’è da chiedersi, cosa vuol dire redenzione? Insomma, c’è da capire se le linee della teologia cristiana relative alla funzione redentrice di Gesù possano essere messe a confronto con quelle della tradizione ebraica, e in che modo”.
L’attesa del Messia e la parusia
Secondo lei, in tema di redenzione è possibile il confronto tra ebraismo e cristianesimo? E a quali condizioni? “E’ possibile. La stessa tradizione cristiana prevede la parusia di Gesù. Il punto di confronto è cosa voglia dire la realtà redenta. Nella lettura proposta dal Papa si parla di redenzione dal peccato. La redenzione portata da Gesù è all’interno dell’uomo rispetto al peccato originale. Nella tradizione ebraica, invece, la redenzione non può essere solo un fatto interiore, dev’essere un fatto cosmico. Non è legata al peccato originale, dal quale bisogna essere lavati. Certo, anche nella tradizione ebraica la trasgressione di Adamo ha una ricaduta sulla condizione dell’uomo. Ma nella tradizione ebraica, la redenzione della realtà riguarda piuttosto il rapporto che Dio ha col creato. L’accompagnare, da parte dell’uomo, Dio a ritrovare se stesso, come dicevano i mistici cinquecenteschi. Riguarda insomma l’esilio di Dio da se stesso, compiuto dagli atti dell’uomo. E il ritorno di Dio a se stesso: il ritorno dell’uomo non al suo essere primordiale, all’Adamo prima del peccato, ma all’Adamo che sarebbe stato se non avesse mangiato il frutto dell’albero della conoscenza”.
Quindi l’attesa messianica del Settimo millennio, in nome della redenzione, può avvicinare ebrei e cristiani più di qualsiasi altro gesto simbolico? “L’attesa non è spasmodica. Già Maimonide, nei ‘Fondamenti della Chiesa’, scriveva ‘Io credo nella venuta del Messia. Anche se tarda, l’aspetterò’. Oggi l’attesa riguarda la possibilità di costruire la redenzione della realtà. L’abbraccio sul piano teologico tra ebrei e cristiani è molto più complesso. Anzi, dubito che sia possibile. Sul piano della tradizione e della teologia ci sono punti di divergenza che restano incolmabili. Tutt’è conoscerli e rispettarli”.
Marina Valensise
Il Foglio