G.C. Più che il campo poté la superstizione. Si cela infatti una vera e propria maledizione dietro all’ennesimo disastro della squadra portoghese del Benfica in una finale calcistica internazionale, l’ottavo di seguito quello con il Siviglia in Europa League a Torino mercoledì scorso. Gli altri, per i più minuziosi, nel 1963 a Wembley ad opera del Milan, due anni dopo ad opera dell’Inter a Milano, quindi nel 1968 a Wembley con il Manchester United, poi una finale di Uefa nel 1983 con i belgi dell’Anderlecht, quindi con il PSV a Stoccarda nel 1988, con il Milan di Sacchi a Vienna nel 1990, con il Chelsea nel 2013 in Europa League, quando il Benfica arrivò secondo in campionato, nella Coppa di Portogallo e in Europa League. Una maledizione continua. La pesante e incancellabile jattura, lanciata nel 1962, porta la firma di Béla Guttmann. Questo stravagante allenatore ungherese, figlio di due ballerini ebrei (e anch’egli diplomatosi istruttore di danza classica), laurea in psicologia e look da impiegato ministeriale, dopo la conquista della seconda Coppa dei campioni consecutiva con il Benfica nel 1962, entrò in attrito con la dirigenza della squadra per una questione di soldi: pretendeva un premio economico, per quanto non previsto dal contratto. Al diniego lanciò una maledizione divenuta celebre e soprattutto finora avveratasi: “Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa ed il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei campioni”. La seconda parte di quell’anatema non potrà mai essere sciolto per ragioni anagrafiche: Guttmann è morto a Vienna nel 1981. E a nulla è servito un pellegrinaggio da parte di Eusebio presso la sua tomba nell’area ebraica del cimitero nel 1990, quando la finale tra Benfica e Milan si giocò proprio nella capitale austriaca. Ci si creda o no, l’anatema del carismatico giocatore-allenatore ungherese ha acquisito enfasi anche per la sua vita da romanzo. In cui le origini ebraiche hanno avuto un peso dominante. La sua carriera di giocatore (ma anche di allenatore), ad esempio, ha avuto inizio con la squadra Hakoah di Vienna, punto di riferimento della comunità ebraica (il nome, in ebraico, significa “forza”). Quando questo team, fondato nel 1909 da sionisti austriaci e che tra i propri tifosi annoverava lo scrittore Kafka, andò a giocare a Berlino, non mancarono giornali che sottolinearono come lo Hakoah avesse contribuito “a distruggere la favoletta dell’inferiorità fisica degli ebrei”. La squadra fu coronata da successi, tra cui la vittoria nel campionato austriaco del 1925. Ma quando nel 1938 Hitler invase l’Austria, il club venne chiuso e uno dei suoi migliori giocatori, József Eisenhoffer, finì la vita in un campo di concentramento. Sempre grazie alla comunità ebraica, Guttmann trascorse alcuni anni della sua vita negli Stati Uniti, forte del fatto che molti club calcistici erano posseduti da ebrei. Qui finì per insegnare danza ai lavoratori portuali per integrare i propri miseri guadagni. E poco si sa di come riuscì a sfuggire alle persecuzioni antisemite. Lui driblò sempre la domanda con un “Ringrazio Iddio”. Di certo sappiamo che nel dopoguerra finì ai rumeni del Ciocanul, ingaggiato dal presidente ebreo, quindi si trasferì in Italia dal 1949 al 1956, dove rinnovò la tradizione aperta dagli ebrei ungheresi Ging, Erbstein (parte del Grande Torino), Feldmann, Hirzer, Weisz (morto ad Auschwitz), allenando Padova, Triestina, Milan e Vicenza. Il legame con Vienna caratterizzò tutta la vita di Guttmann. L’allenatore – che nel suo curriculum collezionò squadre di tutto rispetto come Benfica, Milan, Peñarol, Porto e San Paolo – rimase sempre legato ai ricordi della capitale austriaca, ai fermenti culturali mitteleuropei, ai celebri caffè pieni di intellettuali. Ma Vienna costituisce anche la pagina più attuale ed emblematica del rapporto tra calcio e società: s’annidano ombre su un presunto antisemitismo, particolarmente acceso in Austria, che avrebbe subito anche Guttmann. L’imbecillità non ha tempo ed entra anche in uno straordinario curriculum come quello dell’allenatore ungherese. Balotelli, abituale bersaglio di cori intolleranti, ha spiegato perché tutto il razzismo, non soltanto quello di chi lo insulta per il colore della pelle, va condannato: i suoi genitori adottivi sono di origine ebraica. http://www.pensieridintegrazione.it/corsivi/278-il-benfica-e-la-maledizione-di-bela-l-ebreo
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