L’Hashomer Hatzair compie un secolo. a milano un megaevento, il 10 novembre, per ritrovarsi e rivivere un’avventura che ha plasmato generazioni di ebrei
I migliori anni della nostra vita (forse)
Ilaria Myr
“Paam shomer, tamid shomer”, shomer un volta, shomer per sempre: mai motto fu più azzeccato per descrivere uno stato d’animo come quello che da sempre accompagna tutti coloro che nel mondo frequentano l’Hashomer Hatzair, il movimento giovanile ebraico sionista e socialista che proprio quest’anno compie 100 anni di vita. Ed è proprio perché si resta shomrim per sempre che ai festeggiamenti, che si sono svolti in ogni angolo del pianeta in cui il movimento è presente, hanno partecipato centinaia di persone di tutte le età, accomunate dal fatto di avere vissuto una parte della propria vita nella “tnuà” (movimento). Ogni Paese ha celebrato questo importante traguardo a suo modo, con feste, ritrovi e campeggi all’insegna dello spirito shomristico, raggiungendo, in Israele, picchi di migliaia di persone allo “Shmutzrock”, un festival musicale in cui si sono esibite per tre giorni band rock di shomrim.
In Italia durante tutto quest’anno i shomrim si sono ritrovati virtualmente su Facebook – dando vita a intense e interessanti discussioni – e, nella vita reale, in gite e incontri organizzati dai due kenim (Milano e Roma), che culmineranno con una grande festa di celebrazione in ognuna delle città. A Milano l’appuntamento è per domenica 10 novembre, fra le 12 e le 16, nell’Aula Magna Benatoff della Scuola ebraica di via Sally Mayer, dove si svolgeranno spettacoli, canti e balli organizzati dagli shomrim di ieri e di oggi: per l’occasione sono state realizzate anche 90 video-interviste a shomrim di tutte le epoche, visibili in versione integrale sul sito www.archiviohh.it e da cui sono stati tratti degli stralci per un libro che sarà venduto durante la festa. Un’occasione, insomma, unica e irripetibile per rivivere, anche solo per un pomeriggio, l’atmosfera di un tempo – e mai dimenticata – del movimento. Un amarcord buffo, forse dolce-amaro, spesso pieno di allegria e risate inconsulte, emozionate.
«Oggi che vivo più lontano dal mondo del ken mi rendo conto che mi è rimasta la buona abitudine di guardare alle cose dalla prospettiva degli altri, delle minoranze, dei più deboli, di analizzarle non per come ce le hanno raccontate, ma per come sembrano a me». (Joel Hazan)
Spirito di appartenenza
Un’esperienza totalizzante, formativa, di crescita individuale: questo è l’Hashomer Hatzair per coloro che l’hanno frequentata negli anni, indipendentemente dalle scelte di vita che sono poi state fatte (aliyà o no). Le lunghissime peulot (discussioni sui temi) sugli ideali e sulla politica, le gite, i campeggi, e pure i turni in cucina, e poi, quando si diventa bogrim, le infinite riunioni per decidere cosa fare con i più giovani, la preparazione dei campeggi, le difficoltà di gestire la responsabilità di essere un madrich (guida di un gruppo): questi e tanti altri sono gli aspetti che hanno segnato la vita dello shomer per sempre, influenzandone il modo di pensare e le scelte concrete.
«Al pre-campo di Cellole una mattina mettemmo le calze sporche di tutta la kvutzá chiuse nel sacco a pelo di Rottas (Roberto Attas). Quando aprì il sacco fu una specie di bomba chimica! Credo se lo ricordi ancora…». (Roberto Della Rocca)
Il cuore pulsante della vita dello shomer è la kvutzà, il gruppo di coetanei con cui si condivide tutto: le peulot, la stanza (e la tenda in estate), il tavolo nel chadar ochel (la mensa) e, ovviamente, gioie, dolori, amori, divertimenti indimenticabili (e parecchie vessazioni o scherzi da prete, giusto per non esagerare con l’amarcord idilliaco). Palestra di vita? Senz’altro, ma anche dei primi approcci seduttivi, delle prime dinamiche di relazione e di potere: l’HH mette spesso radici nella memoria di chi l’ha vissuto come un paradiso perduto e, in alcuni casi, come un sogno infranto. Tuttavia, il legame che si crea con i compagni di kvutzà è qualcosa che va molto al di là dell’amicizia: come in una relazione famigliare, ognuno dà se stesso agli altri in modo incondizionato, e anche quando si smette di frequentare l’Hashomer e la kvutzà, in realtà si resta comunque legati a quel vissuto. «Mi sento più solo – continua Joel Hazan – ma fino a un certo punto, perché ho la continua sensazione che nel momento del bisogno il gruppo è sempre lì a disposizione, mi sento tutelato, posso alzare la cornetta e chiamare in qualunque momento».
Ideali e modernità
In cent’anni ne sono successe di cose: dalla nascita del movimento, nel 1913, in Galizia, passando per la seconda guerra mondiale e la Shoah – la rivolta del Ghetto di Varsavia dell’aprile del 1943 fu guidata dallo shomer Mordechai Anilewicz -, fino alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, e poi, ancora dopo, alla costruzione e alla crescita della nazione. Negli anni, molti sono i shomrim italiani che hanno fatto l’aliyà in Israele, cercando di mettere in pratica la “agshamà” (realizzazione) degli ideali su cui è fondato il movimento: sionismo, socialismo ed ebraismo (inteso come identità, appartenenza a un popolo), a cui si aggiunge lo scoutismo (“tzofiut”), nella convinzione che sia parte integrante del ruolo dello/a Shomer/et agire responsabilmente nei confronti dell’ambiente. Sebbene siano tutti considerati, ancora oggi, pilastri incrollabili del movimento, i cambiamenti politici e sociali hanno ovviamente influito su di essi, mettendoli anche a dura prova. I kibbutzim stessi hanno vissuto negli ultimi anni una forte crisi ideologica ed economica, che ha spinto molti ad adottare un modello misto di collettivismo e privatizzazione, al posto del collettivismo che li aveva caratterizzati fino a ieri.
Ma anche il sionismo non è più lo stesso che animava chi voleva costruire e far crescere lo Stato di Israele. «Oggi non è più il kibbutz l’unica risposta al sionismo shomristico – spiega Karin Reingewertz, da tre anni shlichà dell’Hashomer a Milano -, ma la società civile: i giovani shomrim, dopo l’esercito, danno vita a delle “Comunot”, delle soluzioni di ispirazione socialista in cui si vive nella stessa casa, svolgendo attività di utilità sociale. Si è, insomma, passati, dalla terra del kibbutz alla società, in cui sviluppare l’identità ebraica e il sostegno al prossimo aiutando, ad esempio, i bambini, dando assistenza ai bisognosi e all’integrazione delle minoranze, facendo seminari pedagogici nelle scuole…». C’è stata, quindi, un’evoluzione del movimento, che vuole continuare a camminare accanto ai giovani, accompagnandoli attraverso epoche nuove e diverse da quelle del passato. A monte, però, c’è sempre l’unica, stessa forte motivazione a volere rendere il mondo migliore.
UNA STORIA MILANESE
L’Hashomer Hatzair dal dopoguerra a oggi
Subito dopo la guerra, per iniziativa di Giuseppe Franchetti e altri, nasce in Italia la G.E.E.D.I, una realtà che si rifà a esperienze scout non ebraiche già sorte in altri Paesi d’Europa. Con la cessazione in Italia delle attività del Mapai (il partito di Ben Gurion), cresce il Mapam, il partito socialista “cugino minore”, riferimento in politica dell’Hashomer Hatzair, e così il il movimento scout si trasforma in Hashomer Hatzair. È solo nel 1969, però, che viene invitato a Milano uno shaliach dal Kibbutz Artzì (l’organizzazione kibbutzistica dell’Hashomer Hatzair): nasce così il primo Ken di Milano, il ken Amir, di cui ricorre quest’anno il 45° anniversario.
Oggi, ogni sabato pomeriggio si contano al Mifkad (il momento di riunione di tutti i presenti) oltre 90 persone, fra i 10 e i 18 anni. A coordinare le attività è Karin Reingewertz, che supervisiona il lavoro dei bogrim, l’organizzazione dei due campeggi, invernale ed estivo, dei seminari italiani ed europei e dei viaggi in Israele, coadiuvata dalla Vaad Horim, un gruppo di genitori (soprattutto ex shomrim) nato spontaneamente, che ha a cuore lo sviluppo e il funzionamento del movimento.
http://www.mosaico-cem.it/articoli/i-migliori-anni-della-nostra-vita-forse