L’eco della Roma ebraica arriva Oltreoceano
David Laskin
Il Portico d’Ottavia è uno di quei tocchi di surrealismo urbano che si può incontrare solo a Roma. Da una cavità di circa 20 piedi al di sotto del livello stradale, ci sono le rovine di un enorme portico vecchio di 2,000 anni che impone la sua cadente geometria in marmo nel presente. La cupola della chiesa Barocca, Santa Maria in Campitelli, collega la piazza successiva come una matrona impicciona. Pochi passi dopo le rovine, camerieri poliglotti accalappiano turisti per cena sulle loro terrazze tra piramidi di carciofi. Un poster sul muro di un palazzo preannuncia kosher sushi- prossima apertura! uomini barbuti in kippot si fanno largo tra studenti in gilé.
Nessuno sembra minimamente accorgersi di questo discordante mosaico di tempi e culture. Tutti quanti sono troppo occupati a parlare, sorseggiare, passeggiare, inforchettare qualcosa di delizioso.
Per mezzo millennio, il Portico d’Ottavia è stato il cuore del ghetto ebraico di Roma, quattro strette strade incastrate tra il Tevere, la Fontana delle Tartarughe, Teatro Marcello e Palazzo Cenci. Tra la celebrazione dei piaceri terreni di oggi, ho avuto problemi a trovare la piccola placca sul muro che commemora “la spietata caccia agli ebrei” – la crudele caccia agli ebrei che ha avuto luogo qui il 16 ottobre 1943.
Settanta anni fa, il mondo era in guerra, Roma era occupata dai nazisti e il ghetto era una prigione virtuale per una grande parte della Comunità Ebraica della Città. Nella mattina del 16 Ottobre 1943, il capitano delle SS Theodor Dannecker ordinò che la prigione fosse sgombrata. I camion si sono riempiti nella piazza selciata dietro il Portico d’Ottavia, il quartiere fu sigillato, e 365 soldati tedeschi si aprirono a ventaglio nelle anguste strade e cortili. Le famiglie erano nascoste nel retro dei loro negozi con le imposte. Coloro fisicamente abili e perspicaci saltarono dalle finestre o fuggirono lungo i tetti. Gli sfortunati furono inseguiti sotto la minaccia delle armi e ammassati nei furgoni della morte. Su più di 1,000 ebrei romani catturati quel giorno e trasportati ad Auschwitz, solo in 16 sopravvissero.
In una mite notte d’Aprile, mi sedei riflettendo su quella oscura notte con mia moglie e le mie due figlie nella terrazza di Ba”Ghetto, un vivace ristorante vicino Portico d’Ottavia. Intorno a noi, i camerieri stavano servendo piatti di carne grigliata e assicurando ai turisti che i loro carciofi fritti alla giudia erano i migliori di Roma. Nel profondo della notte, una stella filante fu accesa sopra una fetta di torta e tutti cantarono “tanti auguri a te” ad una bellezza ventenne.
Era impossibile non rimanere sbalordito dal contrasto tra la festività del presente e il cupo passato. Persino una dozzina di anni fa, quando visitammo il ghetto per la prima volta, il quartiere sembrava desolato e gretto. Vecchi, sospettosi occhi ci squadravano mentre attraversavamo i macellai kosher e logore sartorie. Gli ebrei furono confinati in queste strade sulla riva del fiume, soggette ad inondazioni nel 1555 da Papa Paolo IV, e nel 2001, un’aura di melanconia era ancora presente.
Ma oggi questo posto è una festa. Romani benestanti affluiscono numerosi per “mangiare all’ebraica” come i newyorkesi popolarono Little Italy o Chinatown. In quel pomeriggio di primavera, i nostri bicchieri da vino riempiti con un cabernet israeliano e humus e couscous abbondanti nei piatti, abbiamo avuto problemi nel riportare alla memoria l’ombra del passato.
In questa città che ha 2000 anni di storia gloriosa e non, i nove mesi di occupazione tedesca (11 Settembre 1943 al 4 Giugno 1944) sono solo una ferita. Ma, da quello che ho imparato nel corso di una settimana spesa a parlare con fornai e archivisti, curatori di musei e rabbini, autisti di taxi e storici, la ferita è ancora aperta. “ I ricordi di Hitler e del Fascismo sono ancora vividi” afferma Alessandra Di Castro, direttrice del Museo Ebraico di Roma. “ La ferita non si è ancora rimarginata”. La ferita più profonda fu inflitta al Ghetto (ex-ghetto, come Miss Do Castro mi ha corretto con fiero orgoglio), ma ci sono altri siti in giro per la città che sono testimoni della lotta e sofferenza di quei mesi. Con una buona mappa, i biglietti per l’autobus e un po’ di immaginazione , sono stato capace di sbrogliare questo doloroso, fascinante capitolo della storia romana.
Dal nostro appartamento in affitto ad un piede dalla collina del Gianicolo, ho viaggiato a lungo negli angoli della città, quelli che la maggior parte dei turisti, non a conoscenza delle connessioni con la guerra, li evita o li attraversa velocemente. Una passeggiata di venti minuti lungo il Tevere mi ha portato nell’ex-ghetto, ma ho dovuto attraversare la città su due autobus per arrivare a Via Tasso, sito di una nota prigione delle SS e ora museo. E da lì mi ci sono voluti altri 15 minuti di tram per raggiungere il quartiere di San Lorenzo, che fu fortemente bombardato dagli alleati.
E’ stata d’aiuto una ripassata alla storia prima di ripartire. Roma e Berlino erano alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, ma quando gli Alleati sbarcarono in Sicilia nel Luglio del 1943 ed ebbe inizio una massiva invasione del territorio italiano, l’asse fascista collassò. Mussolini fu spodestato, e il nuovo governo che prese il controllo iniziò segretamente a negoziare per un armistizio.
I nazisti,tuttavia, non avevano intenzione di lasciare che l’Italia diventasse neutrale. Quando l’armistizio fu annunciato l’8 Settembre l’esercito tedesco diede il via ad un disarmo dell’esercito italiano e sostenne la sua posizione nel territorio italiano. Roma aspettò tremante la chiusa dei tedeschi.
Il 10 Settembre, una truppa di sparpagliati soldati italiani e civili fece un ultimo disperato tentativo a Porta San Paolo. La battaglia si infiammo durante la giornata fuori i merlati cancelli delle torri e al di sotto della Piramide di Cestius, che profila fino al cimitero protestante, dove Keats e Shelly giacciono. Alcuni dei 597 soldati italiani e civili, incluse 27 donne, morirono difendendo la città, ma alla fine della giornata i tedeschi prevalsero.
Ho chiesto agli impiegati di un piccolo gift shop all’interno del cimitero se sapessero dove la battaglia era stata combattuta, e uno di loro mi ha mandato vicino al Parco della Resistenza dell’8 Settembre. Ho passeggiato intorno al piuttosto trasandato parco, passando accanto a genitori che tenevano i loro bambini nell’ombra delle palme e platani. Ma di lato, vicino ad una placca che commemora “ i soldati di ogni reggimento e civili di tutte le classi che si sono opposti agli invasori tedeschi” , ho trovato una traccia della battaglia. Il sole stava tramontando quando sono tornato a Porta San Paolo e mi sono immerso nel traffico di Piazza dei Partigani, centro per i trasporti proprio fuori le mura della città. Qui ho preso un tram per il quartiere di San Lorenzo, un distretto della classe lavoratrice, all’incirca 3 miglia est dal ghetto. Il 29 Luglio 1943, poco prima della caduta di Mussolini, gli alleati bombardarono San Lorenzo sperando di eliminare una cruciale posizione per le ferrovie. Nel corso dei bombardamenti da 2,000 a 3,000 civili romani morirono e una bomba danneggiò pesantemente la meravigliosa Basilica di San Lorenzo Fuori le Mura, di cui alcune parti sono datate intorno al sesto secolo. Volevo scoprire come una chiesa e il quartiere apparissero oggi.
Il tram costeggiò gli antichi archi di Porta Maggiore e rimbombò attraverso i brutti, ma apparentemente signorili edifici vicino il vasto complesso dell’Università di Roma. La mia fermata era vicino ad un moderno parcheggio che sembrava essere nel Bronx. Stavo per ricontrollare la mappa quando ho avvistato il Campanile in mattoni del dodicesimo secolo di San Lorenzo, che si faceva strada tra castagni di cavalli. La porta della basilica oscillava dietro di me e il mondo moderno in un batter d’occhio divenne Medioevo.
Le foto della sacrestia mostrano le rovine rimanenti dopo una bomba americana incavata nel tetto di una nave e fatta a pezzi sul pavimento a mosaico, uno dei più belli in Roma. Pietra dopo pietra, cremisi e bianchi spirali e diamanti furono amabilmente recuperati e rimessi al loro posto.
Come mi aveva mostrato il mio libro guida, sono sceso pochi passi lungo la nave per trovare la trovare la tomba di St. Lawrence, che fu un martire che estraeva carbone nell’anno 258.
Ma il momento che non dimenticherò mai fu il monastero del dodicesimo secolo. Tra le delicate coppie di colonne e piante di mirto ed erbe, mi sono imbattuto in un frammento di bossolo di una bomba che fu trovata tra le macerie nel 1943. Un frammento dell’acciaio americano mostrato inappropriamente in un sacro giardino Romano.
Nei giorni seguenti, ho chiesto a numerosi italiani e romani se provassero un po’ di rancore per i danni collaterali a San Lorenzo: un’amata basilica in rovina, milioni di cittadini uccisi in un bombardamento aereo. La risposta fu sempre la stessa: siamo ancora riconoscenti agli americani per averci liberati dai nazisti.
Via Tasso, all’incirca a metà tra San Lorenzo e il Ghetto, è una via principalmente di palazzi e scuole del diciannovesimo e primi anni del ventesimo secolo, con un arco fatiscente da una parte il santuario della scala sancta dall’altra. sembra un posto confortevole e conveniente dove la classe media romana e gli immigranti vivono sebbene non sia una di quelle zone che andresti a visitare.
Ma durante i 9 mesi dell’occupazione nazista, via Tasso 145 era l’ indirizzo più temuto di Roma.
Era lì,in un appartamento ingiallito che le SS e la gestapo avevano il loro quartier generale, le loro prigioni, e le loro camere di tortura. durante l’occupazione il posto era così temuto che i romani non la chiamavano via Tasso, invece dicevano “laggiù”nel senso, “ lui fu trascinato laggiù”.
Se avete visto il classico di Roberto Rossellini “Roma, Città Aperta” avrete un’idea della sinistra atmosfera di sadismo e disperazione che infettava via Tasso. Normali appartamenti erano stati trasformati in piccole celle dove prigionieri politici e partigiani catturati venivano tenuti al buio senza letto e bagno. Lo scrittore italiano Corrado Augias, era uno studente di 8 anni in un collegio situato su Via Tasso. “Anche dopo molti anni”, scrisse, “ricordo chiaramente le urla che rompevano la quiete della notte e penetravano ovunque nel dormitorio.”
L’ex quartiere generale della Gestapo è ora il sito del Museo Storico della Liberazione di Roma, che mette in mostra la brutalità dell’occupazione nazista e la risposta del popolo romano.
I manufatti sono sparsi ma strazianti: un calzino ricamato con le parole “coraggio amore mio” che una moglie o una madre ha contrabbandato, una maglietta sporca con il sangue di un prigioniero, un ritratto dell’addolorato Colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo, un ufficiale nell’esercito italiano che organizzò la resistenza romana. le SS interrogarono e torturarono Montezemolo per 58 giorni, ma lui non emise una parola. al secondo piano del museo le celle di cinque prigionieri preservano incredibilmente i messaggi che i prigionieri hanno scritto sul muro. “addio piccola mia – non serbarmi rancore”, scrisse un prigioniero. il giorno dopo, una mite domenica, mia moglie ed io decidemmo di andare fuori città per unirci ai romani con il maglione e ai tedeschi con gli attrezzi da sci per una piacevole passeggiata sulla via Appia. solo a pochi minuti di autobus dalla Roma centrale, la strada sembra tornare indietro di 2000 anni. le originali enormi pietre non sono state rovinate dal tempo e ancora pavimentano la via. lungo i margini delle ville campi di siepi e grano stanno all’aperto. e a parte l’occasionale passaggio di un motore o di una vespa l’illusione di un’antichità classica è quasi completa. Ma l’ombra della guerra si sente anche qui. Ad un incrocio le Catacombe di San Callisto, segnano la strada per le Fosse Ardeatine. abbiamo seguito una strada di campagna immersi nel canto degli uccelli e siamo arrivati ad un cancello che assomiglia ad un cespuglio di spine in ferro battuto e aggrovigliato. al di là di un prato circondato da aiuole erge un alto muro di pietra con un rettangolo nero inciso nelle estremità. l’interno nel crepuscolo perpetuo di grotte e cunicoli è il famigerato luogo di una strage nazista. proprio come via Tasso significava tortura durante l’occupazione tedesca di Roma, così le fosse Ardeatine significavano massacro. In ritorsione di un attentato organizzato da un partigiano in via Rasella, vicino a palazzo Barberini, che ha ucciso 33 soldati tedeschi il 23 marzo del 1944, le SS ordinarono l’uccisione di 330 romani -10 per ogni tedesco. La città tremò quando i nazisti fecero l’ eliminazione selettiva. I partigiani imprigionati in Via Tasso, i politici imprigionati nel carcere di Regina Coeli a Trastevere, Ex soldati, ebrei, contadini, studenti e anche un prete finirono per essere condannati.
Per qualche ragione 335 uomini, 5 in più di quelli richiesti, furono trasportati da Roma alle Fosse Ardatine, il 24 Marzo. Una cava per Pozzuolana (cenere vulcanica usata per fare il cemento) vicino Via Appia.
Le vittime furono fucilate all’inferno di una delle cave. Quando l’ultimo uomo fu assassinato, gli esecutori fecero esplodere con la dinamite le cave per nascondere i corpi.
Il memoriale delle Fosse Ardeatine è uno tra quelli più d’impatto per essere così semplice. L’apertura su un lato della fossa fa si che la luce ti guidi verso il buio delle gallerie. Una singola luce lampeggia nella cappella. I cancelli di bronzo segnano il posto in cui i corpi erano ammucchiati. I corpi furono scoperti dopo la liberazione della Città. All’interno del Mausoleo 335 lastre in granito coprono le tombe degli uccisi.
Fabrizio Genuini, l’affabile guardiano all’entrata del memoriale, mi ha detto mentre andavo via : “ Molti vengono a Roma per vedere il Colosseo e le Catacombe di San Callisto, ma sono relativamente poche, al di fuori delle scolaresche, le persone che vengono qui. La memoria è corta.”
Il 4 Giugno 1944, due mesi e mezzo dopo il massacro, la quinta armata dell’esercito americano entrò a Roma dal sud e dall’ est con una piccola resistenza nemica. “ Mio D.o hanno bombardato anche questo!” un GI affermò quando vide le rovine del Colosseo. Infatti i tedeschi si erano ritirati, “ stralunato, barba lunga incolta, a piedi, in auto rubate” nelle parole di un testimone, senza distruggere un singolo edificio o ponte. Alla fine Roma ha avuto solo valore strategico e i nazisti erano a conoscenza che sarebbe stato un disastro per le pubbliche relazioni, distruggere la Città Eterna. Verso la fine della nostra vacanza romana, sono ritornato all’ex- ghetto per chiacchierare, origliare e mangiare. Ma il reale motivo era controllare la vitalità di quel posto settanta anni dopo quella incomprensibile sofferenza. In un soleggiato pomeriggio i bar erano affollati, onde di turisti stavano degustando biscotti e formaggi artigianali nei fast food kasher. I turisti dall’America, da Israele e dalla Germania stanno facendo la fila al check point della sicurezza al Museo Ebraico di Roma nei pressi dell’imponente Tempio Maggiore costruito alla fine dello scorso secolo. In poche ore i ristoranti di Portico d’Ottavia si riempirono e il suono incontrastato delle voci echeggiò nei muri, nei sampietrini e nelle colonne. Eppure non riuscivo a nascondere la tristezza e l’ansia.
All’angolo della strada c’era un piccolo negozio senza insegna, Boccione, una bakery ebraica, un punto di riferimento da due secoli, la proprietaria Bianca Sonnino mi ha tagliato un’ enorme fetta di pizza ebraica – non una pizza a tutti gli effetti ma una dolce pasta con la frutta secca. La signora Sonnino mi ha detto con orgoglio che Boccione è stata la sua azienda di famiglia per generazioni e che sua madre le ha lasciato in eredità la ricetta della torta di ricotta. Ma quando gli ho chiesto della guerra si è commossa. Una donna non ebrea aveva nascosto la sua famiglia, mi ha detto, ma alcuni parenti furono tra quelli deportati ad Auschwitz e non più tornati. “Dopo la guerra il Ghetto non era niente” mi disse. “ Era una zona morta”. Ora alcuni ebrei romani sono preoccupati che la zona stia diventando troppo animata. La gentrificazione ha alzato i prezzi degli appartamenti oltre le possibilità di molte delle famiglie che vivevano qui da secoli se non millenni. Le viette intorno a Portico d’Ottavia sono solitamente riempite da una cosmopolita collezione di benestanti bohemians e turisti. Una scuola ebraica ha recentemente aperto ad un passo dalla Sinagoga, dove vengono bambini da tutti i quartieri. L’ex-ghetto è ancora il cuore pulsante della Roma ebraica, ma un sempre maggiore numero di ebrei romani viene qui solo per pregare, magiare, celebrare e iscriversi alla scuola. In pochi anni, gli ultimi sopravvissuti dell’occupazione nazista non ci saranno più e gli eventi di quei terribili nove mesi saranno parte del flusso di Roma. Ma per il momento, fra il gioioso clamore del ghetto, le voci di coloro che vi abitarono possono ancora essere udite.
Traduzione di Federica Manasse
http://travel.nytimes.com/2013/07/14/travel/echoes-from-the-roman-ghetto.html?pagewanted=all&_r=0
http://www.romaebraica.it/leco-della-roma-ebraica-arriva-oltreoceano/