Elena Loewenthal
«Quattro giorni di dolore. Febbre alta. Dopo due cancri e un herpes conosco la malattia e la sofferenza, ma quattro giorni come questi qui non li avevo ancora provati: quaranta virus, che in occasione del loro congresso annuale si sono ritrovati per tre giorni all’Hilton di Tel Aviv, sono rimasti estasiati davanti al cancro e se la sono intesa a meraviglia con la calura, la febbre e i brividi, il vomito, i dolori, la nausea, poi è venuta l’ultima notte e buio, seduto alla finestra e di nuovo a letto, fradicio, che solo arrivi, porca miseria, che arrivi solo».
Così se ne è andato nella notte tra sabato e domenica Yoram Kaniuk, uno dei più grandi scrittori israeliani. O meglio, così festeggiava un mese fa il suo ottantatreesimo compleanno e lo trascriveva nel diario, da un letto d’ospedale, stremato dalle sofferenze eppure sempre lui, con quella dose di sarcasmo feroce con cui negli ultimi anni ha giocato a rimpiattino con la morte e da ipocondriaco conclamato si è trasformato in suo beffardo antagonista. Ha chiesto di non avere funerale, solo spargere al vento le sue ceneri: chissà come si arrabbierà con quel gruppo di israeliani ortodossi che hanno deciso di recitare per lui la preghiera per i defunti, di fatto un inno alla maestà di un Dio in cui lui non credeva. Dopo una lunga battaglia legale, qualche tempo fa era riuscito a far cancellare dal documento di identità l’appartenenza religiosa, che per l’anagrafe israeliana è imprescindibile. Diceva sempre di considerarsi profondamente ebreo, non per fede ma per nazionalità.
A 17 anni, soldato nella Guerra d’Indipendenza
Yoram Kaniuk era nato nel 1930 a Tel Aviv in una famiglia e in un contesto socio-culturale notevole. Suo padre Moshe, originario della Galizia, fu il segretario del primo sindaco della città, Meir Diezengoff, e divenne il primo direttore del Museo di Arte. A diciassette anni Yoram abbandonò l’atmosfera ovatta del liceo Herzliya e partì volontario per quella guerra d’Indipendenza che accompagnò la nascita dello Stato ebraico.
La guerra, la quasi morte vista negli occhi del nemico che ti punta la pistola contro, sono certamente un’esperienza centrale nel vissuto di Kaniuk. Che dipingeva, oltre a scrivere. E sulla pagina è stato capace di trasporre mondi, esperienze, sfere emotive molto diverse tra loro, sempre accostando un realismo spinto, impietoso, a una capacità immaginifica che va al di là di quel che il suo lettore si aspetta e finisce di portarlo con sé, ovunque arrivi.
Ad esempio nel deserto: quello in cui è stato costruito un avveniristico istituto per malati di mente, sopravvissuti allo sterminio. Qui si svolge quello che è forse il suo più grande romanzo, Adamo risorto , che uscì per la prima volta nel 1971, con il titolo ebraico di Adam ben Kelev , che significa letteralmente Adamo figlio di cane . Jeff Goldblum era davvero perfetto per la parte del protagonista, che nel film del 2011 racconta sul grande schermo la storia di questo pagliaccio ebreo costretto dal suo aguzzino nazista a fargli da cane e che nella vita del dopo, tra amanti devote e procaci infermiere da palpeggiare, tra momenti di lucidità (pochi) e altri di follia (quasi sempre), salverà un bambino convinto, anche lui, di essere un cane.
La produzione letteraria di Yoram Kaniuk spazia dal mito dell’ebreo errante alla storia nazionale d’Israele, dall’autobiografismo uno dei suoi ultimi libri s’intitola Per la vita e per la morte ed è la cronistoria, drammatica e comica, di un soggiorno ospedaliero comprensivo di una specie di morte e conseguente resurrezione. Ha scritto con tenacia e incisività sui conflitti del presente come in Un arabo buono , di recente ripubblicato dalla Giuntina, che negli ultimi tempi ha coltivato con affetto e costanza i destini italiani di questo autore. Difficile tirare le somme di una scrittura come la sua, sorprendente per poli opposti, proprio come era lui: dolcissimo e graffiante, capace di ispirare una tenerezza immensa e al tempo stesso di irritare per uno strano insieme di sussiego e insicurezza.
Era un personaggio, con quegli occhi inquieti, la parlata strascicata ma limpida, in un ebraico che ancora sapeva d’Europa. Per decenni non aveva preso aerei se non era sicuro che non avrebbero sorvolato la Germania. Ma era andato lontano, a New York dove aveva vissuto alcuni anni e incontrato l’amore della sua vita, la fragile Miranda da cui ha avuto due figlie e alcuni nipotini. Oggi non sono solo loro, è tutta Israele che si sente orfana di un grande scrittore. E anche chi come me l’ha accompagnato in traduzione per anni, ora lo piange e lo vede come l’ultima volta: fragile ma rappacificato con la vita e fors’anche con la morte che già vedeva vicina, eppure ancora potente con la parola, armato di quella sua straordinaria, indimenticabile commistione di disincanto e ideali.
La Stampa
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