Missionari in crisi. Padre Neuhaus, in Israele fede cristiana vista come nemica. Vicario cattolici lingua ebraica, su loro forte pressione sociale
Nina Fabrizio
Nina Fabrizio
GERUSALEMME, 31 MAG – ”La comunita’ di cattolici di lingua e cultura ebraica negli anni ’50-’60 contava migliaia di persone, oggi e’ ridotta ad appena 600 fedeli in tutto Israele. Si tratta per lo piu’ di ebrei convertiti al cattolicesimo, una sfida pastorale ed evangelica difficilissima e spesso fallimentare perche’ qui, il piu’ delle volte, i cristiani sono identificati con i nemici” in ricordo di quello che i nazisti fecero agli ebrei.
A parlare e’ padre David Neuhaus, vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, lui stesso un ebreo convertito. E’ responsabile di una pastorale che si rivolge da un lato a questo drappello di cattolici di derivazione ebraica, cittadini israeliani, ”sempre piu’ esigui nel numero poiche’ i loro figli vogliono assimilarsi in tutto e per tutto ai loro coetanei ebrei della societa’ laica”, e dall’altro a un nuovo universo che si affaccia in Israele, quello dei migranti dalle Filippine, dall’India, dall’Eritrea, dall’Etiopia, cristiani i cui figli non parlano piu’ la lingua e i dialetti dei genitori ma apprendono fin da piccoli l’ebraico.
Cio’ che accomuna questi due mondi – gli ebrei convertiti e le ”migliaia” di cattolici immigrati – e’ appunto la lingua, l’ebraico.
”Una sfida vinta”, spiega padre Neuhaus, ”poiche’ siamo riusciti a inventare una liturgia cattolica in lingua ebraica che prima non c’era”. Dove le cose, invece, non vanno affatto bene, e il padre gesuita di origine sudafricana parla senza mezzi termini di ”fallimento”, e’ sul fronte della comunita’ cattolica di origine ebraica. ”Noi non abbiamo quasi nessun ebreo religioso praticante che diventa cattolico – fa sapere -, gli ebrei convertiti vengono semmai dalla maggioranza laica. Da un punto di vista legale non c’e’ problema, in Israele esiste la totale liberta’ di conversione. I problemi nascono nel contesto sociale e familiare che esercitano sulle persone una pressione fortissima. Gli ebrei convertiti si nascondono, hanno paura di essere rinnegati dalla famiglia e dal loro contesto sociale”.
Cio’ accade, spiega padre Neuhaus, per una ragione ”storica”: il cristiano e’ ”’il traditore’, colui che ‘e’ andato dai nostri nemici’, dicono gli ebrei”. Per questo, aggiunge, ”noi qui siamo molto discreti, nella nostra comunita’ c’e’ sensibilita’ nel mostrare i simboli religiosi”.
In effetti, il centro dove opera padre Neuhaus, in una strada di Gerusalemme a pochi passi dal quartiere ebraico ultra-ortodosso di Mea She’arim, visto dall’esterno, si presenta come una villetta uguale alle altre. Non ci sono crocifissi ne’ altri simboli che diano l’idea di una chiesa o di una parrocchia. ”Facciamo cosi’ – afferma – non perche’ non e’ saggio o perche’ ci conviene ma perche’ sappiamo che c’e’ una ferita molto profonda. Solo all’interno abbiamo un piccolo crocifisso, per rispettare anche gli ebrei che di tanto in tanto vengono da noi”. Del resto, aggiunge il gesuita, a questa comunita’ cristiana in evoluzione e trasformazione ”mancano strutture, abbiamo per lo piu’ piccole case e spesso le messe si fanno in seminterrati o persino, come avviene a Tel Aviv, in un rifugio anti-bombe preso in affitto”.
In luoghi come questo si svolgono celebrazioni di sabato, giorno festivo in Israele, invece che di domenica, stracolme di filippini, indiani, etiopi, eritrei, con i parroci che si affannano a celebrare anche cinque messe al giorno. Quelli che scarseggiano sono invece i cattolici di origine ebraica. ”Dopo l’Olocausto – afferma padre Neuhaus – ce n’erano molti di piu’, magari perche’ sposati a una moglie o a un marito ebreo. Oggi, i loro figli e nipoti vogliono far parte della societa’ laica ebraica, quella che ha tutti i diritti e le possibilita’. Da noi – e’ l’amara conclusione -, non tornano mai, sono intere generazioni di cattolici perdute per sempre”. (ANSAmed).
A parlare e’ padre David Neuhaus, vicario del Patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica, lui stesso un ebreo convertito. E’ responsabile di una pastorale che si rivolge da un lato a questo drappello di cattolici di derivazione ebraica, cittadini israeliani, ”sempre piu’ esigui nel numero poiche’ i loro figli vogliono assimilarsi in tutto e per tutto ai loro coetanei ebrei della societa’ laica”, e dall’altro a un nuovo universo che si affaccia in Israele, quello dei migranti dalle Filippine, dall’India, dall’Eritrea, dall’Etiopia, cristiani i cui figli non parlano piu’ la lingua e i dialetti dei genitori ma apprendono fin da piccoli l’ebraico.
Cio’ che accomuna questi due mondi – gli ebrei convertiti e le ”migliaia” di cattolici immigrati – e’ appunto la lingua, l’ebraico.
”Una sfida vinta”, spiega padre Neuhaus, ”poiche’ siamo riusciti a inventare una liturgia cattolica in lingua ebraica che prima non c’era”. Dove le cose, invece, non vanno affatto bene, e il padre gesuita di origine sudafricana parla senza mezzi termini di ”fallimento”, e’ sul fronte della comunita’ cattolica di origine ebraica. ”Noi non abbiamo quasi nessun ebreo religioso praticante che diventa cattolico – fa sapere -, gli ebrei convertiti vengono semmai dalla maggioranza laica. Da un punto di vista legale non c’e’ problema, in Israele esiste la totale liberta’ di conversione. I problemi nascono nel contesto sociale e familiare che esercitano sulle persone una pressione fortissima. Gli ebrei convertiti si nascondono, hanno paura di essere rinnegati dalla famiglia e dal loro contesto sociale”.
Cio’ accade, spiega padre Neuhaus, per una ragione ”storica”: il cristiano e’ ”’il traditore’, colui che ‘e’ andato dai nostri nemici’, dicono gli ebrei”. Per questo, aggiunge, ”noi qui siamo molto discreti, nella nostra comunita’ c’e’ sensibilita’ nel mostrare i simboli religiosi”.
In effetti, il centro dove opera padre Neuhaus, in una strada di Gerusalemme a pochi passi dal quartiere ebraico ultra-ortodosso di Mea She’arim, visto dall’esterno, si presenta come una villetta uguale alle altre. Non ci sono crocifissi ne’ altri simboli che diano l’idea di una chiesa o di una parrocchia. ”Facciamo cosi’ – afferma – non perche’ non e’ saggio o perche’ ci conviene ma perche’ sappiamo che c’e’ una ferita molto profonda. Solo all’interno abbiamo un piccolo crocifisso, per rispettare anche gli ebrei che di tanto in tanto vengono da noi”. Del resto, aggiunge il gesuita, a questa comunita’ cristiana in evoluzione e trasformazione ”mancano strutture, abbiamo per lo piu’ piccole case e spesso le messe si fanno in seminterrati o persino, come avviene a Tel Aviv, in un rifugio anti-bombe preso in affitto”.
In luoghi come questo si svolgono celebrazioni di sabato, giorno festivo in Israele, invece che di domenica, stracolme di filippini, indiani, etiopi, eritrei, con i parroci che si affannano a celebrare anche cinque messe al giorno. Quelli che scarseggiano sono invece i cattolici di origine ebraica. ”Dopo l’Olocausto – afferma padre Neuhaus – ce n’erano molti di piu’, magari perche’ sposati a una moglie o a un marito ebreo. Oggi, i loro figli e nipoti vogliono far parte della societa’ laica ebraica, quella che ha tutti i diritti e le possibilita’. Da noi – e’ l’amara conclusione -, non tornano mai, sono intere generazioni di cattolici perdute per sempre”. (ANSAmed).