Dalla derashà tenuta all’Oratorio Di Castro di via Balbo, Roma, in occasione del primo giorno di Shavuot 5773
David Gianfranco Di Segni
Durante il Tikkùn di Shavuòt, la notte dedicata allo studio, ho letto una spiegazione di un brano talmudico sui Dieci Comandamenti che è “bella e perfetta come un fiore”, una immagine che ben si addice a questa giornata in cui le nostre sinagoghe sono piene di fiori ed erbe profumate. Che sia bella come un fiore non lo dico (solo) io, lo dice l’autore stesso, Rabbi Yaakov Yehoshua Falk (1680-1756), nel suo commento Pnei Yehoshua. Il brano del Talmud in questione (Shabbat 87a) riguarda la nota discussione sulla data in cui furono dati i Dieci Comandamenti, se il 6 di Sivàn (come dice la maggioranza dei Maestri) o il 7 (così afferma Rabbì Yosè).
Secondo entrambe le opinioni, il Decalogo fu promulgato di Shabbat e l’incertezza sulla data (6 o 7 di Sivàn) dipende dal modo di fissare l’inizio del mese in base all’apparizione della luna nuova. Che il giorno della rivelazione fosse Shabbat si impara da una ghezerà shavà (analogia testuale): infatti, nel comandamento sullo Shabbat è detto “Ricorda (zakhòr) il giorno dello Shabbat per santificarlo…” (Esodo 20:8) e lo stesso termine, zakhòr, è usato anche in Esodo 13:3: “Ricorda questo giorno in cui sei uscito dall’Egitto”. Poiché con tutta evidenza l’ordine di ricordare il giorno dell’uscita dall’Egitto fu dato nel giorno stesso in cui gli ebrei stavano uscendo, anche per lo Shabbat l’ordine di ricordarlo fu dato nel giorno stesso di Shabbat.
Fin qui tutto a posto. Il punto è, però, che secondo Rabbì Yosè i Dieci Comandamenti furono dati con un giorno di ritardo rispetto al programma originario come era nella “Mente di D-o” (bedà’at haKadòsh Barùkh Hu). Fu Moshè che chiese la dilazione di un giorno per concedere al popolo d’Israele un ulteriore periodo di preparazione, e il Signore Iddio acconsentì. Ma se il Decalogo fosse stato promulgato di venerdì, come da programma, non poteva esserci scritto zakhòr! Il ricordo dello Shabbat va fatto di Shabbat, non di venerdì. E se non c’era scritto zakhòr, cosa c’era scritto nella versione originaria dei Dieci Comandamenti? Questa è la domanda che si pone il Pnei Yehoshua.
La risposta sorprendente, ma ovvia (col senno di poi), è che nei Dieci Comandamenti originari c’era scritto shamòr (osserva). Ecco perché, continua il Pnei Yehoshua, diciamo che shamòr e zakhòr furono pronunciati con una unica emissione di voce, un concetto del Midrash reso famoso dal canto Lekhà Dodì che tutte le settimane intoniamo per accogliere lo Shabbat: “Shamòr vezakhòr bedibbùr echàd”. Questo detto del Midrash (nella Mekhiltà) si basa sulla doppia versione dei Dieci Comandamenti, quella in Esodo al cap. 20 e quella nel Deuteronomio, cap. 5. Fra le due versioni ci sono alcune (poche) differenze, la più rilevante delle quali è appunto quella riguardo allo Shabba: in Esodo è scritto zakhòr e in Deuteronomio è scritto shamòr. Per conciliare le due versioni, il Midrash sostiene che furono entrambe proclamate da D-o “con un’unica voce”, ma il popolo ne sentì una ai piedi del Monte Sinai, mentre l’altra la sentì 40 anni dopo, poco prima di entrare nella Terra Promessa, in occasione del discorso di congedo che Moshè fece al popolo.
Il Midrash non spiega però la necessità di avere due versioni dei Dieci Comandamenti. È vero che shamòr e zakhòr rappresentano due precetti distinti, infatti il primo attiene ai lavori (melakhòt) proibiti, mentre zakhòr si riferisce alle azioni positive (per esempio fare il Kiddùsh, accendere le candele prima dello Shabbat ecc.). Ma perché dirle entrambe nei Dieci Comandamenti? Dello Shabbat si parla in molti altri passi della Torà.
Il Pnei Yehoshua ci dà la risposta: “Secondo ciò che haKadòsh Barùkh Hu, il Santo benedetto Egli sia, pensava di fare, ossia dare la Torà nella vigilia dello Shabbat, avrebbe dovuto dire shamòr, ma dopo che Egli acconsentì all’idea di Moshè di darla di Shabbat, fu necessario dire anche zakhòr… così da dare onore a Moshè… Così sembra a me, kaftòr vafèrach ([una spiegazione] bella e perfetta come un fiore)”. Kafòt vafèrach letteralmente significa bocciolo e fiore, ed è usato dalla Torà per descrivere la struttura della Menorà, il candelabro (Esodo 25:33). Il Midrash e la letteratura rabbinica usano occasionalmente questa espressione per indicare qualcosa di perfetto.
Il Pnei Yehosua è riuscito a carpire un barlume della Mente di D-o, che è spesso oscura da decifrare e quasi impenetrabile. Ma a volte, a qualcuno, è dato di riuscirci. E quando ci si riesce, allora possiamo ben dire che è qualcosa di bello come un fiore.
Kaftòr vafèrach.
Foto GDS