Giorgio Israel
Il libro di Harold Bloom presentato da Amy Rosenthal sul Foglio del 24 dicembre 2005 non l’ho letto. E, dopo aver letto quella presentazione, mi appello al noto detto: «Non l’ho letto e non mi piace». Anzi, “grazie a quella presentazione”: c’è tanta roba interessante da leggere in giro che bisogna essere riconoscenti a chi ti aiuta a impiegare bene il tempo.
Quel che colpisce negativamente è il modo con cui Bloom descrive il Dio dell’Antico Testamento. Fa pensare inevitabilmente al modo con cui ne parla Fernando Savater nel suo libro “I dieci comandamenti nel ventunesimo secolo”, di cui abbiamo parlato diffusamente su queste pagine mesi fa (Il Foglio, 28 giugno 2005). Come Savater, Bloom ha una voglia irrefrenabile di mostrare tutti i lati ridicolmente umani di Dio e il suo caratteraccio bizzoso e maligno, e se ne scusa: “Non sto dicendo queste cose per sorprendere o scioccare nessuno”. Ma la sua voglia di “épater le bourgeois” sprizza da ogni lato.
Certo, Bloom è un celebre critico letterario e non ha bisogno, come Savater, di ricorrere all’autorità di un esperto di gastronomia e tauromachia argentino per raccontare che Mosé scese dal Sinai con delle tavole in pietra scolpite male. La sua autorità di professore della Yale University lo fa sentire in diritto di raccontarci che Dio “ha tutti i caratteri di un essere umano” e “fa picnic sul Monte Sinai con Mosé e altri anziani di Sion”; ma non toglie a noi la voglia di chiedergli quale fosse il ripieno dei panini e quali bibite si fossero tracannati.
“È un Dio umano, troppo umano” – insiste Bloom – “imperscrutabile” e dalle motivazioni “tutte sorprendenti”. “Ha un carattere incostante, fa le cose a suo modo [perché mai dovrebbe farle a modo altrui, vallo a capire] ed è estremamente capriccioso”. È un seminatore di zizzania patologicamente curioso, gioca con il pongo come un bambino per fabbricare un uomo, ed è “privo di qualsiasi misericordia”. Ci voleva un “ebreo sul piano culturale” per ritirare fuori questo classico topos della lettura antiebraica dell’Antico Testamento.
Fin qui Bloom segue le tracce di Savater: disegnare un Dio indegno di qualsiasi stima, un satrapo bizzarro e cattivo dalle azioni incomprensibili e irrazionali. Ma Bloom è un professore, e perciò deve cavare da tutta questa roba una conclusione degna di veste teorica. E – sempre a quanto riferisce Amy Rosenthal – la sua tesi sarebbe che il Dio dell’Antico Testamento è “un Dio privo di qualsiasi elaborazione teologica”, “è una persona con una precisa personalità e non un dio teologicamente sviluppato”. Qui ci fermiamo e ci chiediamo: ma quali panzane ci hanno raccontato allora a proposito di cruciali passaggi dell’Antico Testamento che rappresenterebbero, al contrario, l’affermazione di Dio come essenza assoluta, come spirito assoluto che impregna della sua presenza l’intero universo? Per esempio, ci hanno parlato tanto dell’incontro di Mosé con Dio presso il pruneto ardente e di quando Mosé chiede a Dio cosa dovrà rispondere ai figli d’Israele quando questi gli chiederanno qual è il “nome” del Dio che l’ha mandato. Si è tanto insistito sulla risposta di Dio, sulla celebre frase: “Io Sono Colui che Sono”, espressione di Dio come pura esistenza, il contrario di un Dio individualmente caratterizzato. E che viene rafforzata ancor di più con l’affermazione: “Dirai così ai figli d’Israele: l’“Io Sono” mi ha mandato da voi”. Come diamine dovremo leggere questo brano – e tanti altri che avanzano la stessa idea – perché regga in piedi la tesi di Bloom?
Ce lo indica lo stesso Bloom, enunciando con prosopopea professorale il metodo da lui seguito. “Non ho mai accettato la distinzioni tra testi sacri e profani” e i testi vanno letti “con lo stesso spirito con cui insegno ai miei studenti a leggere il Re Lear o l’Amleto di Shakespeare, ossia concentrando l’attenzione su ciò che è scritto sulla pagina”. Il che naturalmente vuol dire: pochi voli di fantasia e poche interpretazioni e tenersi stretti al senso letterale del testo. Altrimenti, l’ammonimento sarebbe banale: su cosa mai posso concentrarmi se non su quello che leggo?… Se le cose stanno così, non c’è scampo: Dio – da bizzoso, umorale e nevrotico qual è – di fronte alla petulante domanda di Mosé ha risposto né più né meno: “Io sono chi sono, insomma sono chi mi pare, e fatevi i fatti vostri”. In tal modo, non c’è dubbio, la tesi di Bloom tiene in piedi.
Non ci si dica che siamo troppo cattivi e un po’ teppisti nei confronti di cotanta autorità, perché allora rincareremo la dose chiedendo se davvero è un buon metodo quello di concentrare l’attenzione su quel che è scritto nel testo, attenendosi al significato testuale, anche nel caso di un testo letterario. Bella lettura del Castello o del Processo di Kafka sarebbe quella in cui ci si attenesse strettamente a quello che è scritto sulla pagina astenendosi da ogni interpretazione! E si pensi a una lettura testuale dell’inizio della Divina Commedia di Dante Alighieri. “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. Escluso che esista un sentiero fisico che uno percorre dalla nascita alla morte, giocoforza è salire al livello metaforico immediatamente superiore: si sta parlando del cammino temporale, insomma vuol dire “a metà della vita”. E passi. Poi: “mi ritrovai per una selva oscura”. Qui cominciano i problemi, perché come diamine può venire in mente a una persona sensata di festeggiare il trentacinquesimo compleanno in un bosco, per giunta tanto selvaggio da metter paura? Ma, dice il testo, Dante si era perso, e allora passi, anche se mettersi in giro quando uno è “tanto pieno di sonno” non è un’idea da persona sensata. Ma Dante persona sensata non è, perché non soltanto è entrato in una foresta in cui incontra tre animali quanto mai disparati – una lonza (lince), un leone e una lupa – da rendere incredibile l’esistenza di un posto siffatto sulla terra, ma si ostina a tentare di passare a tutti i costi per salire in cima a un colle, non si sa perché (il testo non lo dice). Insomma, siamo di fronte a un altro personaggio a dir poco bizzarro e dalle motivazioni sorprendenti.
Scherzi a parte, noi non crediamo in alcun modo che Bloom, liberissimo di proporre una lettura metodologicamente unificata dei testi sacri e dei testi profani, li legga allo stesso modo; e cioè usi per i testi letterari lo stesso approccio di piatta adesione a quel che si legge nella pagina che sembra applicare quando legge l’Antico Testamento; e che lo conduce ad accumulare una congerie di banalità sul Dio capriccioso, umano, “troppo” umano, e così via. Di certo, Bloom i testi letterari li legge e li fa leggere in modo più profondo e non insegna ai suoi allievi che il signor K passava fisicamente le sue giornate gironzolando attorno a un castello (come Dio faceva picnic con Mosé e i settanta in cima al Sinai). Se così facesse sarebbe legittimo avanzare qualche riserva sulle sue qualità di critico letterario. Ma siccome pare che così faccia per i testi sacri, vuol dire che per questi ultimi usa un trattamento diverso e di livello inferiore: cosa niente affatto nuova e caratteristica di certo pensiero politicamente corretto dei nostri giorni, che ritiene legittimo e anzi doveroso spernacchiare la religione e riservare la più profonda deferenza a tutto ciò che è “laico”.
Del resto, che Bloom riservi ai testi sacri un trattamento che non si sognerebbe riservare a Shakespeare appare evidente da una sua osservazione. Premessa nostra: pensate che un critico letterario serio vi proporrebbe mai di valutare in profondità un testo su una traduzione? Certo, siamo gli ultimi a pretendere che una riflessione generale, concettuale, storica, non la possa fare chiunque, anche una persona genericamente colta, sulla base di una buona traduzione. Ma se si passa dalle riflessioni generali all’esegesi dei testi, e addirittura all’identificazione di differenti strati compositivi, allora sostenere che la gente, per “capire bene”, dovrebbe leggere “la versione autorizzata della Bibbia ebraica – quella di King James”, è affermazione a dir poco risibile. Autorizzata da chi, poi? Quand’anche fosse concordata da diverse autorità religiose non sarebbe la parola finale rispetto al testo originale. Nessuno pretende che Bloom si studi la Bibbia ebraica sul testo originale, ma quantomeno non venga a far la lezione, ammonendo che “per capire” bisogna leggere il testo “autorizzato” di King James… Consiglierebbe seriamente a un italiano di identificare le strutture stilistiche nell’opera di Shakespeare su una traduzione “autorizzata”?
Ma veniamo ora alla questione centrale, quella che Bloom ci vuol far “capire”, e cioè che esiste un abisso tra il Dio personale, umorale e umano dell’Antico Testamento, e il Dio astratto e teologico del Nuovo Testamento, il Cristo della tradizione misterica ellenistica; e, di conseguenza, che la divergenza tra le due religioni è tale che parlare di radici giudaico-cristiane è assolutamente privo di fondamento. Bloom sostiene che l’idea di un messia il quale è allo stesso tempo Dio e muore sulla croce per redimere i peccati del mondo non può essere riconciliata con la dottrina della Bibbia ebraica. Di primo acchitto si tratta di un’assoluta banalità, che fa di Bloom il primo candidato al premio mondiale per la scoperta dell’acqua calda. Di che cosa si sarebbe nutrita la frattura millenaria tra cristianesimo ed ebraismo se non della divergenza circa il fatto che Cristo sia il Messia e al contempo Dio venuto in terra per redimere i peccati del mondo? Tuttavia, questo dissenso si è basato su un’opposizione esattamente contraria a quella identificata da Bloom: da un lato, l’ebraismo difendeva l’idea di un Dio impersonale, assolutamente trascendente, rigidamente unico, e, dall’altro lato, il cristianesimo, proponeva invece la visione secondo cui quel Dio – lo stesso Dio di Israele – si era fatto “persona”, individuo, uomo materiale. La carnalità del sacrificio di Cristo – il Dio fattosi uomo – è l’essenza del messaggio cristiano, a fronte del quale l’ebraismo ha difeso senza posa l’idea del Dio trascendente e impersonale. Bisognerebbe concluderne che Bloom non ha capito assolutamente nulla, ovvero ci ha proposto una storia rovesciata. Ed è proprio così, ma si tratta di capire perché.
La spiegazione sta proprio nella tesi – l’inesistenza di una tradizione giudaico-cristiana – che ha evidentemente influenzato e corrotto tutto il ragionamento di Bloom. Se soltanto egli non avesse dimenticato che al cuore di entrambe le religioni sta il tema del messianismo, egli avrebbe affrontato la questione in modo meno polemicamente superficiale. Il messianismo è un tema posto originalmente proprio dall’ebraismo e che si è aperto a una molteplicità di interpretazioni e di visioni che hanno prodotto una quantità di esperienze e diramazioni religiose. Non è certo un caso che la storia dell’ebraismo sia stata contrassegnata da un gran numero di “eresie” messianiche, alcune delle quali hanno avuto ripercussioni profondissime: la vicenda del falso messia Sabbetai Sevì ne è uno degli esempi più clamorosi, al punto da determinare la formazione di scismi sabbateisti che si sono protratti per quasi due secoli. Restando a una visione strettamente storicista – il punto di vista religioso è ovviamente diverso – il cristianesimo rappresenta l’interpretazione più radicale e originale dell’idea messianica ebraica: esso propone la visione di un messia non soltanto uomo, profeta, per quanto sommo, che porta la parola di Dio, la pace e la redenzione nel mondo, ma Dio stesso che si fa carico di tale missione facendosi uomo. Pertanto, le due religioni sono unite e divise da questo unico tema messianico, esso costituisce il loro terreno comune di incontro e di confronto. Non c’è un testo serio che tratti del messianismo che non ponga al centro il confronto tra ebraismo e cristianesimo su questa cruciale questione.
Naturalmente, non è questo l’unico terreno comune delle due religioni. Chi legga senza pregiudizi i Vangeli sa benissimo quale sia il legame profondo che li legano all’Antico Testamento. Perciò non vale la pena di insistere su tutto ciò che di comune hanno la visione della morale e dell’etica delle due religioni, anche se in un confronto dialettico. È abbastanza penoso, a fronte di una letteratura sterminata, dover argomentare che ebraismo e cristianesimo non hanno alcuna radice in comune, e questo soltanto per confutare un’argomentazione condotta sulla base di una caratterizzazione delle due concezioni della divinità che praticamente rovescia i fatti.
Ma basta un esempio a comprendere il vizio più profondo dell’approccio di Bloom. Egli dice che “non ci può essere riconciliazione tra Atene e Gerusalemme. Il pensiero di Isaia e quello di Socrate e Platone sono assolutamente antitetici”. Può darsi che questo si possa dire, in senso strettamente letterale. Ma la storia si è incaricata di dire il contrario e di realizzarla nei fatti questa riconciliazione, di mettere insieme Mosé, Isaia, Cristo, Socrate e Platone. Bloom ha mai sentito parlare dell’Umanesimo e del Rinascimento? Se ne avesse sentito parlare saprebbe che, nell’ambito del pensiero rinascimentale è stato condotto questo “tour de force”: pensare Pitagora come un antico ebreo, Socrate come l’archetipo di Cristo e Platone come l’erede di Mosé, fondere Atene e Gerusalemme. In altre parole, cercare una sintesi tra razionalismo greco e teologia ebraica e cristiana. E non soltanto della teologia cristiana ma anche di quella ebraica, perché è nell’interpretazione che la mistica ebraica dà dell’Antico Testamento che Pico della Mirandola ricerca una dimostrazione conclusiva della verità del dogma trinitario. Anche se di quelle costruzioni specifiche non è restato gran che, l’idea che le animava ha stimolato niente di meno che le concezioni della modernità europea. Come sarebbe nata quella corrente di “teologia laica”, secondo la definizione di Amos Funkenstein – la teologia dei Cartesio, Spinoza, Leibniz, Hobbes, Newton, Vico e tanti altri – che ha prodotto niente di meno che la scienza moderna? Quello di cui Bloom sembra non avvedersi è che le forme culturali nuove e originali si producono attraverso sintesi ardite di componenti di per sé incongrue e persino inconciliabili. La scienza moderna si è formata attraverso la sintesi di neoplatonismo, neopitagorismo, teologia cristiana ed ebraica, nuove pratiche di misurazione e di manipolazione della natura e altre componenti, ciascuna delle quali appare di per sé inconciliabile con le altre, e di fatto lo è stata per secoli.
In conclusione, anche se Bloom riservasse ai testi sacri la stessa lettura rispettosa che riserva certamente a Shakespeare, ciò non produrrebbe comunque un buon risultato, ove venisse trascurata la dinamica dei processi di pensiero e delle esperienze concrete in cui questi testi hanno operato. Ma anche questo non basterebbe ancora, e proprio per il motivo che si tratta di testi sacri. Con ciò non vogliamo dire che Bloom non abbia il diritto di guardare ad essi da non credente e quindi di metterli sullo stesso piano dei testi letterari profani. Ma occorre fare i conti con il fatto che questi testi sono stati “vissuti” da milioni e milioni di uomini, nel corso della storia, come testi sacri. Il che cambia le cose, e non poco. La Divina Commedia o il Re Lear non sono mai stati un riferimento morale, etico, teologico, di prassi quotidiana come l’Antico e il Nuovo Testamento, e anche il Talmud e la Kabbalah. Questi testi sono stati (e sono) per tanti uomini un corpo “vivente” intrecciato con la loro vita spirituale e pratica, e quindi soggetto a un continuo ripensamento e a continue interazioni. Da ciò non deriva certo che l’esegesi testuale e storica dei testi non abbia senso e non sia perfettamente legittima. Ma ritenere di poter derivare da questa delle conclusioni circa la dinamica e le sorti dei testi “sacri” nella storia degli uomini è una pretesa infondata. In altri termini, è illusorio sperare di dimostrare l’impossibilità di un’interazione positiva tra ebraismo e cristianesimo e l’inesistenza di una tradizione ebraico-cristiana come conseguenza di contrapposizioni e antinomie rilevate nei testi. Un simile approccio è già profondamente errato nell’analisi delle dinamiche storiche delle idee “profane”, figuriamoci nei confronti di testi “rivelati”, che hanno avuto il ruolo di guida spirituale e pratica nella vita di generazioni di uomini, e lo hanno ancora!
Ma forse la spiegazione è che a Bloom l’idea di un dialogo tra tradizione ebraica e tradizione cristiana semplicemente non piace. Egli ricorda che Moses Mendelssohn, il celebre esponente dell’Illuminismo ebraico, parlava continuamente di tradizione giudaico-cristiana e commenta: “qual è stato il risultato? È stato, come dico nel mio libro, la grande versione del Tempio che il popolo tedesco ha costruito: Auschwitz”. Se ne possono sparare tante, per il gusto di attizzare la polemica, ma che Hitler abbia costruito Auschwitz per smentire Moses Mendelssohn e fare un favore ai cristiani, è la cosa più insulsa che si possa dire.
Secondo Bloom il concetto di tradizione giudaico-cristiana è un mito anche se “può essere un’ottima cosa per la riconciliazione sociale”. Ma lui, in realtà questa riconciliazione non la vuole per niente. Dichiara di essere anticristiano: “non mi fido dei cristiani. Nessun ebreo che abbia un minimo di consapevolezza storica può fidarsi dei cristiani”. Chi scrive non ha alcuna simpatia per i cristiani che negano tutto il male che i cristiani hanno fatto agli ebrei nel corso della storia, o che lo minimizzano, che parlano dei ghetti o dell’Inquisizione come di istituzioni benefiche e magari rovesciano subdolamente sugli ebrei la colpa di tutti i mali che li hanno colpiti. Personaggi alla Vittorio Messori, tanto per capirci. Ma sa anche che esistono tanti cristiani che non sono così e con cui, al contrario, per un ebreo esiste una profonda e naturale possibilità di intendersi, proprio perché sono esistite e hanno resistito, nonostante tutto, le famose radici ebraico-cristiane. E non gli piace affatto che si parli di cristiani di per sé cattivi, come non accetta che si parli di difetti o colpe che gli ebrei (o qualsiasi altro gruppo umano) possederebbero di per sé. Harold Bloom osserva che gli Stati Uniti, “nonostante tutta la loro retorica democratica, stanno diventando per un terzo un’oligarchia, per un terzo una plutocrazia e per un altro terzo una teocrazia. A mio giudizio non siamo un paese sano”. Ha dimenticato di dirci quanti sono, in quel terzo di oligarchia, coloro che nutrono l’odio di sé e coltivano l’ideologia del “politically correct”.
Se Bloom vuole coltivare la sua attrazione per l’odio e le divisioni insanabili, dovrebbe coltivare un sodalizio con coloro che la pensano come lui, che ritengono che il Dio dell’Antico Testamento fosse un despota pazzo e crudele, e che ebrei e cristiani debbono detestarsi per i secoli a venire. Non scomodi l’esegesi letteraria per questo. Organizzi piuttosto un picnic con Savater e Messori in cima a un monte di sua scelta. Attenzione però al menu, e soprattutto alle bevande. Il vino, in particolare, è da evitare. Con tutto l’abuso che ne fanno ebrei e cristiani nei loro rituali, è tipica roba giudaico-cristiana.
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