Con la morte a Gerusalemme, lo scorso 10 febbraio, di Rav David Hartman, scompare uno dei più importanti pensatori ebrei contemporanei: rabbino ortodosso, docente universitario e direttore del prestigioso Shalom Hartman Institute, un centro per studi avanzati talmudici e filosofici.
Bruno Segre
Nato a Brooklyn, New York, nel 1931, dopo essersi formato nella yeshivah diretta da Joseph Soloveitchik prestò servizio quale rabbino dapprima presso una congregazione del Bronx e più tardi a Montreal, nel Canada, per poi fare infine l’alyiah, nel 1971, assieme alla moglie e a cinque figlioli.
Hartman ha sempre considerato la ‘salita a Zion’ come un tornante fondamentale nella sua vicenda esistenziale e nel perseguimento della sua missione, tesa a favorire una migliore comprensione tra ebrei di varie affiliazioni ─ in Israele e nella diaspora ─, e a contribuire all’edificazione di una società israeliana più marcatamente pluralistica e tollerante. “Nella mia qualità di ebreo che ha deliberatamente optato per il privilegio di vivere a Gerusalemme con la sua famiglia”, scriveva in un saggio del 2004, “posso testimoniare della gioia e del sentimento d’autenticità che procura il vivere in un Paese che sta ancora cercando la propria identità.” E a proposito di Gerusalemme e dell’atmosfera di particolare tensione teologica fra tradizione e modernità che vi si respira, scriveva nel 1999: “Lo slogan dell’United Jewish Appeal ‘Noi siamo uno’ suona vano quando un ebreo incontra un ebreo solo per accorgersi quanto poco l’uno comprende l’altro. ‘Può una divisione cronica, quale la polarizzazione crescente tra ebrei osservanti e non osservanti, trasformarsi in guerra civile?’ non è una questione astratta in Israele.” E più avanti annotava: “Non solo i membri della stessa comunità di fede si incontrano come fossero stranieri, ma, nel nostro incontro-scontro con i palestinesi, noi incontriamo anche lo straniero, il diverso, il ‘radicalmente altro’. Noi ebrei siamo arrivati a casa credendo che avremmo infine adempiuto gli antichi sogni di ritorno alla terra promessa dei nostri antenati, solo per scoprire che vi erano arabi i quali rivendicavano di essere radicati nella terra che noi chiamiamo casa.”
Nell’àmbito del lavoro di ricerca che Hartman ha per molti anni coordinato nello Shalom Hartman Institute, una delle tematiche centrali era costituito dalle sfide che la tradizione culturale e religiosa propone agli ebrei che vivono nel rinato Stato d’Israele. Hartman, che pure improntava il suo magistero al retaggio del giudaismo ortodosso, nei suoi scritti sosteneva con enfasi e convinzione le ragioni del pluralismo religioso, vuoi all’interno del mondo ebraico vuoi nei rapporti tra le varie fedi: pluralismo che egli considerava perfettamente compatibile con la fedeltà alla Torah. In più di un suo scritto Hartman affrontò di petto i principali fattori che, all’interno della società d’Israele, hanno contribuito a scavare, dagli ultimi due decenni del 20° secolo, un solco sempre più profondo tra israeliani religiosi e laici. È una spaccatura, questa, che ha connotazioni di chiara impronta sociale e politica. Ma al di là di ciò, essa è il segno di una lacerante divergenza di natura culturale e ideologica, che tocca niente meno che la definizione dell’identità ebraica e la questione di che cosa significherà l’essere ebrei e l’essere israeliani nel 21° secolo. Può sembrare trattarsi, a prima vista, di una disputa locale, squisitamente ‘israeliana’. Ma in realtà ha ramificazioni e risonanze molto più vaste ─ e ne sanno qualcosa persino gli ebrei italiani, come il sottoscritto ─: si tratta di due mondi ormai molto distanti e diversi tra loro, a riavvicinare i quali Hartman si è speso a lungo con un impegno straordinario. In una prospettiva marcatamente pluralistica, l’approccio di Hartman ha puntato a creare le condizioni per dare vita a una nuova etica pubblica e a una rinnovata, comune e aperta cultura ebraica, nella quale potessero riconoscersi e muoversi con agio sia i sionisti religiosi sia il grosso della popolazione israeliana che, ancorché secolarizzato, conserva con la tradizione vincoli significativi. Notevole, negli scritti di Hartman, lo sforzo di riprodurre in Israele le basi minime di un’identità civile comune, partecipata, tesa a far rivivere quel clima di fitta, intensa ‘conversazione ebraica’ che, a partire dalle plurali interpretazioni delle Scritture e dei testi classici, ha reso tanto fertile e creativa in passato la cultura degli ebrei.
Hartman si rendeva conto con lucidità che la rinata patria degli ebrei, prima ancora di chiarirsi al mondo, ha bisogno di chiarire sé a se stessa. Con il suo magistero, egli ha inteso dare un contributo appunto in questa direzione. Occorre, diceva Hartmann, comprendere il significato d’Israele senza doverne fare il precursore della redenzione messianica. “Gli ebrei”, scriveva in un saggio del 1999, “sono tornati a casa a Gerusalemme per insegnare al mondo a rinunciare a credere in una fede universale che includa tutti.” E prosegue: “La rinascita dello Stato d’Israele è una espressione intensificata dell’identità particolare di un popolo ed è proprio questa particolarità che può insegnarci il significato dell’universalismo come sviluppo di un impegno a favore delle particolarità. Una particolarità intensa può essere una benedizione se Israele accoglie tutte le voci di buona volontà nel mondo, se accoglie tutti i credenti in tutta la loro diversità, se può cantare insieme con musulmani e cristiani. Amerei essere testimone della fioritura dell’islam…
Ancora: guardo avanti verso un dialogo ebraico-islamico che comincerà a fiorire. Da Israele uscirà una verità che dice: nessuno ha il monopolio esclusivo sulla verità. La chiave per la verità è vivere con l’‘altro’ senza sentirsi minacciati. Spesso si dice che il più grande comandamento è: ama il tuo prossimo come te stesso. Io sostengo che il più grande comandamento biblico è: ama lo straniero, poiché amare il proprio prossimo è amare qualcuno che è come te…. Israele dice al mondo: scegliamo con orgoglio di essere lo straniero nella storia, l’‘altro’.
E dedichiamoci ad assicurare che ogni ‘altro’ che vive in questo Paese si senta perciò degno e amato.”