Rav A. A. Locci
Il venticinque di Kislew del 165 a.e.v., è il giorno in cui si concluse la lotta per ristabilire la libertà e l’indipendenza in terra d’Israele. I Seleucidi siriani furono sconfitti dai Maccabei e il Tempio, profanato con statue pagane, fu riconsacrato. Per questo, i maestri stabilirono otto giorni di festa e lode al Signore e l’accensione di lumi, di un apposito candelabro, che rappresentano la diffusione pubblica del “grande miracolo avvenuto lì”. Ma qual è l’essenza di questa ricorrenza? E’ noto che il messaggio precipuo del giorno di Kippur sia la Teshuvà, il ritorno a Dio; che il principio fondamentale della festa di Pesach sia la libertà dalla schiavitù; quello di Shavu‘ot il dono della Torà e quello di Purim la salvezza fisica da un tentativo di sterminio. Quale può essere, allora, l’essenza degli otto giorni di Chanukkàh? La consapevolezza piena della propria identità ebraica è la risposta a questa domanda; e se dovessimo definire il periodo in cui cade questa festa, dovremmo chiamarlo zeman yahadutenu – tempo del nostro essere ebrei.
Questa consapevolezza si può acquisire attraverso la comprensione di alcuni messaggi fondamentali della festa di Chanukkàh.
Distinzione: La società ebraica durante il dominio degli ellenisti, si assimilava molto velocemente, addirittura arrivò a nascondere quei simboli, patti eterni, che contraddistinguono l’identità ebraica. La rivolta maccabaica, si proponeva di ridestare nel popolo l’orgoglio di essere ebrei. Essere ebrei vuol dire essere diversi, essere distinti e disposti a vivere in modo peculiare senza preoccuparsi che altri possano schernire e dileggiare il modo di vita ebraico. Le azioni dei Maccabei, ancora oggi, sono un invito a non essere influenzati dalle culture che ci circondano; un ebreo deve essere disposto a essere attento alla kasherut durante un pranzo di lavoro, a osservare lo Shabbat, a fare tzedakà e osservare le regole della purità familiare, consapevole della propria diversità rispetto l mondo che lo circonda. Noi siamo quello che siamo e non dobbiamo aver timore di essere noi stessi. La diversità non è un problema ebraico, lo è forse per gli altri.
Crescere in santità: Il rito dell’accensione dei lumi, momento fondamentale della celebrazione di Chanukkàh, è il risultato di una discussione talmudica tra la scuola di Shammay e quella di Hillel. Shammay sosteneva che bisogna accendere la prima sera otto lumi e poi decrescere fino ad accendere un solo lume l’ottava sera. Hillel, invece, insegnava che bisogna iniziare con un lume e crescere fino all’ottava sera con l’accensione di otto lumi. A prima vista potrebbe sembrare una discussione tecnica sul numero dei lumi, ma in realtà – le opinioni di Hillel e Shammay – rivelano due diversi modi di porsi di fronte ad un problema di fondamentale importanza. Shammay insegna che prima bisogna cancellare il male, accendere subito tutti i lumi per bruciare – simbolicamente – il male e il malvagio; alla fine rimarrà un solo piccolo lume a illuminare il nostro cammino. L’insegnamento di Hillel è differente: non sempre si può distruggere tutto il male. Allora, bisogna essere pronti a iniziare la nostra opera educativa dal nulla, accendendo un piccolo lume, cui ne seguirà un altro e un altro ancora e così via perché ma‘alin bakodesh velò moridin si sale nella santità e non si scende, venendo così ad aumentare costantemente la luce, cioè il progresso della Torà, con il suo studio e l’osservanza delle sue mitzwot. La norma dell’accensione dei lumi sarà stabilita secondo l’opinione di Hillel.
Surrealismo: La Torà nel libro di Devarim afferma solennemente che: “l’uomo non vive di solo pane” (Devarim 8:3). Ciò può voler dire che l’umanità non può vivere, decidere, scegliere solo per mezzo di quanto si ha a disposizione dalla realtà materiale. Se Yehudà HaMaccabì avesse valutato le sue scelte in base alla realtà oggettiva che stava vivendo, non si sarebbe mai ribellato e, allo stesso modo, la parte non ellenizzata del popolo ebraico non si sarebbe mai unita a lui. In effetti, quella realtà oggettiva manifestava tangibilmente l’impossibilità che un piccolo gruppo di combattenti, potesse vincere contro le più potenti e numerose forze dei dominatori e che questa era una condizione incontrovertibile. I Maccabei, invece, lottarono contro quella realtà, perché credevano in un’altra ancor più grande, quella realizzabile grazie all’incrollabile fiducia nel Signore e nei propri mezzi. Le azioni di questo piccolo gruppo d’insorti, erano sostenute dalla fiducia in un Dio che, come già accaduto in epoche bibliche, avrebbe combattuto con e per loro. Essere ebrei, significa – soprattutto – saper vivere nella realtà materiale ma al tempo stesso trovare in essa, per mezzo della Torà, una prospettiva superiore, migliore per sé e per gli altri. Dopo la distruzione del II Tempio, per duemila anni siamo sopravvissuti nella grande diaspora, forse proprio perché non abbiamo tenuto conto solo della realtà oggettiva, della logica e della ragione. Forse, essenzialmente, siamo un po’ surreali, diluiamo la realtà materiale nella fiducia in un Dio immateriale. Il vivere una dimensione surreale, accomuna tutto il popolo d’Israele, gli osservanti insieme ai non osservanti. Ma che cos’è il surrealismo ebraico? Non è altro che un realismo di più alto livello, come quello che nel 1897 determinò in Theodor Herzl il sogno della rinascita di uno stato ebraico in terra d’Israele; un sogno che divenne realtà con David Ben Gurion nel 1948.
La storia di Chanukkàh, tra luci e ombre, insegna che il nostro ebraismo deve dimostrare distinzione, deve crescere sempre e sempre deve essere difeso, anche se per questo si deve andare contro la realtà oggettiva e apparire surreali. Allora, che il nostro Shabbat sia sempre più rispettato, che la nostra kasheruth sia più attenta e precisa, che le nostre preghiere siano quotidiane e recitate più con sentimento, che lo studio della Torà sia più diffuso e approfondito. Con questi strumenti possiamo superare gli ostacoli (kelipot) che limitano la nostra essenza. Il messaggio di Chanukkàh, non è altro che un invito a essere e comportarci – veramente – da ebrei!
CHAG URIM SAMEACH