Jerusalem SOS: ebrei e musulmani insieme a salvare vite umane. Nel link sotto anche il filmato
Elena Intra
Mentre ascolto le notizie, ho la sensazione che uno sciame di parole mi stia pungendo: Iran, Israele, nucleare, Palestina-Israele a un punto morto, musulmani che uccidono ebrei ed ebrei che uccidono i musulmani. In quanto donna musulmana che tiene lezioni sull’Olocausto in una scuola cattolica, mi sento costantemente frustrata dalla copertura dei media sul Medio Oriente, che per lo più sembra evidenziare e consolidare le tensioni nazionali e religiose, nonchè i pregiudizi e i conflitti.
Un documentario del regista Karen Ghitis trasmesso recentemente da Al Jazeera, ha rappresentato un’eccezione estremamente incoraggiante alla regola. Il film, Jerusalem SOS, ha mostrato ebrei e musulmani impegnati a salvare delle vite umane.
Il documentario, andato in onda lo scorso mese, mostra arabi con indosso giubbotti arancioni su cui è stampata la stella rossa di David collaborare con gli Haredi (conosciuti come ultra-ortodossi), gli ebrei con le papaline nere e tzitzit (“frange” rituali annodate ai capi di abbigliamento). Entrambi i gruppi hanno solo lodi l’uno per l’altro. Lavorando come paramedici volontari presso l’organizzazione ebraica ortodossa United Hatzalah (UH), questi ebrei e musulmani stanno prendendo atto degli aspetti più importanti della loro fede: preservare le vite umane e la giustizia.
Nel documentario i paramedici palestinesi dell’UH hanno notato che spesso i mezzi di soccorso tardano nel raggiungere i malati e i feriti a Gerusalemme Est, perché le ambulanze israeliane non sono autorizzati ad entrare nei quartieri palestinesi senza essere accompagnate da una scorta di polizia o militare. Inoltre, alcune delle case non hanno indirizzo. Dato che i paramedici UH conoscono bene la zona e dispongono di moto-ambulanze, sono i primi ad arrivare sulla scena.
Il film mostra la squadra di soccorso che trascende i confini fisici e politici per salvare vite umane. I membri di entrambe le fedi si aiutano a vicenda nel fornire servizi alle comunità durante i rispettivi giorni santi: i musulmani vanno in soccorso degli ebrei durante il sabato ebraico, mentre questi ultimi aiutano i musulmani nelle situazioni di emergenza il venerdì, così come durante il Ramadan.
Eli Be’er, il fondatore della UH, è citato anche dal Jerusalem Post: “Gli ebrei ei musulmani non si oppongono a lavorare insieme, nonostante i confini invisibili e i sospetti che separano le loro comunità. All’inizio, ho incontrato alcuni che sono rimasti sorpresi di lavorare insieme, ma dopo aver visto che si tratta di persone fantastiche ed estremamente professionali, si sono trovati bene”.
Questi paramedici musulmani ed ebrei hanno abbracciato la ricchezza spirituale delle proprie fedi ignorando i confini superficiali della differenza. Si dovrebbe prendere spunto da questa storia, e concentrare maggiormente l’attenzione sulla speranza e la cooperazione.
Mi viene in mente un’altra storia interreligiosa incoraggiante che risale ad alcuni mesi fa. Il 5 giugno, ABC News ha riferito che “Un uomo israeliano, sul punto di morte per problemi al cuore, ha appreso oggi che potrà continuare a vivere, grazie a una famiglia palestinese che ha donato il cuore di uno dei suoi membri uccisi nell’escalation di violenza che sta devastando l’Israele”.
L’israeliano che ha ricevuto il cuore ha commentato affermando che i loro cuori erano uguali, così come lo erano loro dentro.
È fondamentale che ebrei e musulmani facciano riferimento alle molte storie positive di vita e di morte, di fede e giustizia che si verificano quotidianamente. Attraverso le nostre azioni e la perseveranza affermiamo i nostri valori comuni e gli impegni reciproci, indipendentemente dalle differenze religiose.
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