Chi, se non un editorialista dell’Haaretz, poteva indignarsi per le parodie della cultura pop?
Ilan Ben Zion
Su Youtube, si sa, c’è di tutto di più. L’infinita varietà dei video proposti cresce in teoria – e in pratica – ogni giorno, ma c’è uno dei mille generi offerti che veramente mi urta i nervi: le cover delle canzoni in chiave “ebraica”. Ci sono, cioè, artisti che prendono pezzi di discutibile qualità e inspiegabile successo e le riscrivono, prendendo di mira una festa o un particolare aspetto della “cultura ebraica” che – a loro parere – merita quattro bonarie risate in compagnia. Ho scritto “cultura ebraica” volutamente tra virgolette, perché la maggior parte delle volte questi sgradevoli sottoprodotti dell’incontro tra tecnologia e modernità non sono davvero rappresentativi né della cultura e né dell’identità ebraica.
Canzoni tipo “Rosh Hahanah Rock Anthem” (Inno Rock del Capodanno Ebraico) di Aish Torah o “Dip Your Apple” (Intingi la Mela nel Miele, con riferimento a una tradizione legata al Capodanno ebraico) di Ein Prat Fountainheads stanno alla cultura ebraica come il vino Manischewitz (vino di produzione industriale americana per la cena di Pasqua) alla kosherut (insieme delle norme alimentari ebraiche). Cioè: identificano elementi della cultura ebraica americana contemporanea – che si traducono in linea di massima con degli stereotipi sociali – e li presentano in modo tale da farli sembrare ciò che meglio definisce l’identità del nostro popolo. Peccato che così facendo amplifichino, perpetuino e rafforzino i cliché negativi e dispregiativi sugli ebrei, invece di esprimere ciò che davvero conta nell’essere ebreo oggi.
Veniamo adesso a “I’m Jewish and You Know it” (Sono ebreo e tu lo sai), video che vanta 5 milioni e duecento mila visualizzazioni, parodia di “I’m Sexy and You Know it” di LMFAO: humour infantile sugli “Shlomo” circoncisi, kippot sulla testa e cibi kosher sono il mezzo attraverso il quale si identifica l’identità ebraica, almeno secondo l’autore del video.
Il fatto è che questi video confermano con testi e immagini volgari certi luoghi comuni, vedi il mohel (colui che è autorizzato a praticare la circoncisione) che si aggira per il video con una mannaia in mano. L’aver girato sul lungomare di Tel Aviv e le stelle di David al collo dei protagonisti sono gli unici aspetti che, parlando dal punto di vista culturale, distinguono queste imbarazzanti clip dai video originali. Anzi, dirò di più, i già discutibili originali sono più interessanti come espressione della cultura pop contemporanea.
I video di cui stiamo parlando offrono alle giovani generazioni un’immagine dell’ebraismo come dimensione materiale e non intellettuale (l’identità culturale viene cioè confinata alla proprietà di oggetti rituali precipui o al consumo di certi cibi invece di altri), senza contare che raccontano a chi ebreo non è una storia distorta.
L’ebraismo moderno viene dato in pasto al mondo dei “gentili” (i.e. dei non ebrei) in canzoni tipo “Black and Jewish” (Nero e pure Ebreo), che gioca con stereotipi antisemiti come l’avarizia, il commercio dei diamanti, il “gefilte fisch” (piatto della cucina tradizionale ebraica dell’est Europa), il vino Manischewitz, i nasoni e tutta una varietà di strani rituali che rimangono più o meno oscuri per chi guarda.Insomma, più uno spot per la futura attività cinematografica del Mel Gibson integralista che un’espressione di orgoglio per il proprio bagaglio culturale; un genere filmico che riduce la cultura ebraica a un minimo comun denominatore, buono solo per qualche minuto di divertimento grossolano ad uso e consumo di titolari per diritto di nascita, che si sentono così anche “in contatto” con radici antiche. E invece, per citare Walter de “Il Grande Lebowski”, trasformano “duemila anni di straordinaria tradizione, da Mosè a Sandy Koufax” in quella cosa vistosamente vacua che è la parodia di “Poker Face” di Lady Gaga realizzata dalla Ashley Faith di “Kosher Face” (Faccia da kosher).
Provate poi a confrontare il trionfo di stereotipi ebraici dei video di cui sopra con il più elegante, profondo e originale “What it means to be Jewish” (Che significa essere ebreo) di Andrew Lustig, che analizza davvero gli aspetti contraddittori dell’essere ebreo oggi.
Il più delle volte gli autori degli squallidi remake che vi ho raccontato li producono perché ossessionati da se stessi e non perché animati dalla voglia di esprimere davvero la propria identità, per renderla comprensibile agli altri. Si limitano a trasporre la popolarità della canzone che scimmiottano in una visione superficiale dell’identità ebraica. Per questo motivo gli abusati leimotif e i testi volgari sono, come negli anni ’80 e ’90 fu Shlock Rock, nient’altro che robetta.
Haaretz (Israele), mercoledì 25 gennaio
Quelle parodie che ci offendono
Ilan Ben Zion, politologo e blogger di Gerusalemme, veterano dell’esercito israeliano
http://www.tg3.rai.it/dl/tg3/articoli/ContentItem-7ecdb6e5-eee9-4a7b-9bde-24487728ea2a.html