Una ex-consigliera di Roma reagisce male al duro discorso pronunciato a Roma nel giorno di Kippur da rav Riccardo Di Segni (clicca).
Claudia Fellus
Voglio ringraziare rav Di Segni, per il discorso che ha tenuto al tempio maggiore di Roma il sacro giorno di Kippur. Penso che se vogliamo renderlo proficuo dobbiamo illuminare quelle zone, o quelle ombre che possono suscitare, ancora una volta, travisamenti, dolore e incomprensione (gli intellettuali e la loro spocchia, il loro rapporto con lo Stato di Israele, i bei tempi dei rabbini che tolleravano tutto, l’ebraismo chic e il compromesso penoso e patetico).
So che in situazioni pubbliche non bisognerebbe parlare della propria storia, ma sento che la parte che racconto, non appartiene a me solamente. Con infinite sfumature, come lei dice nel suo stimolante discorso. È vero che le differenze sociali e culturali possono creare un solco difficilmente rimarginabile, ma forse, questo avviene da ambedue le parti. Io, per esempio avrei voluto un giorno essere invitata ad un incontro con i cosiddetti “altri”. Avrei voluto raccontare loro la mia storia, direttamente, per vedere se magari era diversa da quella mormorata. Per quanto mi riguarda ho ospitato coloro che hanno avuto voglia di confrontarsi. Pochissimi a dire il vero.
Alcuni di noi si sono sentiti additare come nemici di Israele, intesa come popolo e Stato o come fondatori in pectore di diversi ebraismi religiosi. Hanno visto stravolgere la propria storia, sentito che la loro opinione era preventivamente considerata sbagliata. Nel marcare le differenze non si tratta di individuare una classe sociale, quanto reciproci pregiudizi culturali. C’è stata una maggioranza che ha privilegiato il pensiero unico, guardando torvamente quell’altra. Solo perché era diversa. Non uguale. Accusata di non appartenenza. Nella realtà l’auspicabile visione “di un’identità ebraica e un rapporto con la religione di tutte le gradazioni e varietà possibili” è stata più volte sopraffatta.
Non ha reagito con spocchia, semmai con delusione.
Alla tolleranza religiosa che viene imputata all’ebraismo di un tempo, per intenderci con sincerità, quello di rav Toaff, si potrebbe contrapporre l’eccesso di tolleranza o addirittura in certi casi di una qualche simpatia verso uomini e partiti che fecero dell’antisemitismo e della persecuzione razziale un elemento distintivo della loro origine politica.
La storia vissuta sulla propria pelle, aveva reso quella generazione consapevole di quanto allora tutto l’ebraismo, in tutte le sue sfumature, non poteva sfuggire ad un destino comune, quello della persecuzione e della morte. Noi lo sappiamo, ma loro c’erano. Lo sforzo fatto era quello di tenere unito quel mondo, con uno sguardo paterno, anche se attento alle regole. Non abbastanza? Forse. Non sta a me giudicarlo. Quello che so è che l’ebraismo italiano è esistito e ha avuto voce in capitolo nell’ambito dell’ortodossia. C’è molto da correggere probabilmente ma senza emarginare tutti coloro che non aderiscono completamente. Come ormai avviene all’interno delle stesse famiglie.
Chi le scrive non rispetta lo Shabbat, va in macchina. Lo fa il venerdì sera, quando attraversa la città per raggiungere la casa paterna, dove si riunisce la famiglia per recitare il Kiddush e mangiare insieme la sera della festa. Cascasse il mondo lo ha sempre fatto. Lei giustamente dirà che è sbagliato. Ma questo rispecchia il mio ebraismo. Non voglio dire che sia giusto, dico che è il mio.
Forse, l”essenza dell’ebraismo è ciò che la dialettica dovrebbe insegnare a fare” ma senza mai dimenticare che questa è confronto e non implica una sintesi affidata a una autorità ad essa preposta, fosse anche l’autorità rabbinica. Un confronto, insieme, perché si trovi la strada comune per salvaguardare nel modo migliore la cosa a cui tutti tendiamo, la vitalità delle nostre kehillot, la sopravvivenza dello Stato di Israele, il rapporto con la religione ebraica, con la nostra storia che è strettamente legata alla storia del paese in cui viviamo o in cui abbiamo vissuto, consci che non ci può essere un futuro ebraico in continenti in cui l’antisemitismo diviene una bandiera. Questa non è la ricerca di ciò che il mondo esterno considera chic e arguto. È il desiderio di confronto su un mondo che cambia, forse, come giustamente dice lei, non in meglio.
È proprio perché il nostro modo di vivere l’ebraismo è considerato “un compromesso un po’ penoso e patetico” che quelli come me si allontanano, alla ricerca di un luogo in cui vivere il proprio ebraismo non sia “un peccato”, una trasgressione alle regole.
Forse questi mondi non sono così distanti nel sentire, forse i compromessi del pensiero, sono solo ragionamenti comuni. Senza che un’etichetta, prevenga la nostra capacità di ascolto.
Grazie per il suo stimolante discorso, rav Di Segni, grazie davvero, perché ripropone un dibattito che è mancato al Congresso e di cui abbiamo bisogno.
L’Unione Informa 10 ottobre 2011