Nell’ora di Ne’ilà 5772, 8 ottobre 2011
Qualche giorno fa Gadi Luzzatto Voghera ha raccontato questa storia su Moked, il giornale online dell’UCEI: “Mi è capitato un anno fa di fare un bel viaggio nella Polonia ebraica e ad Auschwitz con un gruppo di amici padovani, ebrei e non ebrei. Persone colte, che hanno dato vita a un bel dibattito intellettuale […]. L’ultimo giorno siamo stati raggiunti da un nutrito gruppo di ebrei romani, la classica “piazza”, e l’indomani siamo andati insieme a visitare Auschwitz. Bandiere israeliane, hatikva, commozione. Ma anche uno sguardo supponente e, direi, “di superiorità” che si percepiva nei confronti degli amici romani. Una signora di passata militanza comunista mi avvicina e mi chiede lumi: “ma chi sono, ma come si comportano, ma proprio non c’è terreno di confronto”, mi dice. La guardo un po’ stupito e le rispondo: “amica mia, questo è il popolo”, chiedendomi per cosa avesse mai combattuto in questi anni di militanza politica da sinistra.”
La scena qui descritta è un po’ esagerata, ma reale. La “piazza” classica non esiste più, ma così da fuori vedono il nostro “popolo ebraico romano” che abbraccia un’ampia fascia di famiglie che vivono soprattutto di commercio, e che si esprime in un certo modo, tanto più in momenti di forte emotività come in una visita ad Auschwitz. Così come esiste un altro mondo ebraico, chiamiamolo “intellettuale”, non solo fuori Roma, che non capisce questo popolo e se ne tiene lontano con una certa spocchia. La distanza tra i due mondi si manifesta soprattutto nel campo politico e nel rapporto con lo Stato d’Israele. Ma non è solo su questo, e non ne starei a parlare qui ora, in uno dei momenti più solenni e sacri del nostro calendario, se questa distanza non proponesse delle riflessioni importanti sul piano religioso.
Vi sono sempre state nelle nostre comunità delle differenze sociali, basate sulla ricchezza, sulla professione, sul livello di educazione. Anni fa erano molto più sentite, come vere e proprie barriere sociali. Ora tutto si è fortunatamente più smussato, ma non è finito e ce ne siamo accorti anche nelle ultime elezioni dove le liste sono diventate quasi espressioni di classi differenti. Il fatto è che queste differenze incidono non poco anche sull’identità e sulla vita religiosa.
Roma ebraica ha conosciuto in questi ultimi anni una crescita esponenziale di attivismo ebraico e insieme una crescita di religiosità. Sono cresciuti i consumatori di carne kasher e i servizi a questo collegati; sono aumentate le Sinagoghe periferiche e i loro frequentatori; cresce il numero degli studenti nelle nostre scuole e delle persone interessate allo studio della Torà nelle sue varie espressioni. Le domande che i rabbini ricevono non riguardano più temi esclusivi come il lutto, ma si allargano allo Shabbat, alla purezza famigliare, ai rapporti economici. Ma esiste anche l’altra faccia della medaglia, quella del disinteresse e dell’abbandono. Questa sera, come tutti gli anni, le nostre Sinagoghe sono stracolme. Per molti di coloro che sono ora qua, o si affacceranno tra un’ora per la berakhà, questa sarà forse l’unica, o una delle pochissime presenze annuali al Beth haKeneset.
Soprattutto a chi si affaccia solo ora vorrei dare il benvenuto, con una storia vera raccontata da rav Shlomo Carlebach. E’ la storia di un professore israeliano non osservante e antireligioso che, soldato durante la prima guerra in Libano fu ferito, e rimase isolato in attesa di soccorsi. Se non fossero venuti a prenderlo entro due ore sarebbe morto dissanguato. In momenti così ti passa davanti tutta la vita, si cercano cose a cui appoggiarsi, riaffiorano i ricordi di esperienze, studi, melodie care. In quelle due ore decisive l’unica cosa che riuscì a tenere sveglio e confortare il professore fu il ricordo del Kippur passato in Sinagoga da bambino con il nonno, l’atmosfera intensa, le emozioni, i canti, che ritornavano a galla benché rimossi o sepolti da altre esperienze. Una volta salvato e guarito, il professore maturò questa conclusione: se un suo nipote non avesse avuto da piccolo quelle fondamentali esperienze e si fosse poi trovato sciaguratamente nelle stesse condizioni critiche, non avrebbe avuto alcun sostegno. Per questo anche un’ora sola qua, insieme ai propri cari o ai propri confratelli e soprattutto con chi prenderà il nostro posto è importante, e fondante. E’ il sacro che si manifesta, parla e si trasmette. E’ il sostegno essenziale che dà senso alla nostra vita.
Non sono tutti agli estremi come il professore. Nell’identità ebraica e nel rapporto con la religione esistono tutte le gradazioni e le varietà possibili. Qui non ci sono più i due poli classici nettamente distinti, tanto più dopo l’arrivo, per nostra fortuna, degli Ebrei di Libia; in realtà c’è un modello di base condiviso da cui ci si distacca in varie direzioni. La maggioranza condivide una visione ebraica in cui il cemento è la storia comune, la Shoà, lo Stato d’Israele, la vigilanza sull’antisemitismo, insieme alla partecipazione più o meno intensa a certi riti religiosi. Sono in molti a mangiare kasher almeno a casa, e molti di meno a rispettare il Sabato. Ma chi è chi si avvicina o si allontana di più? A prima vista sembrerebbe che gli “intellettuali” siano quelli più in fuga; per loro l’impegno politico e culturale è stato prevalente, con minore attenzione alla religione praticata; e con la crisi dei riferimenti politici e ideologici, il vuoto non è stato riempito dalla religione. Non sarebbero loro i frequentatori crescenti delle nuove Sinagoghe.
Ma senza dare colpe e meriti a caso, bisogna capire che sia nell’una che nell’altra parte la maggioranza si adagia su un modello ideale in cui la prima regola è evitare quelle che sono considerate esagerazioni, importazioni recenti da mondi alieni. Manca un desiderio sincero di conoscenza, di comprensione. Ognuno è libero di decidere quanto essere osservante, ma se vuole essere onesto con sé stesso deve prima cercare di capire che cosa rifiuta e perché lo rifiuta. Invece prevale la reazione emotiva, un tempo sì che andava tutto bene, noi siamo romani e italiani, un tempo sì che i nostri rabbini tolleravano tutto, e così via. Ma non è vero, i rabbini sono stati sempre criticati e attaccati per quelle che venivano considerate stravaganze ed esagerazioni. Dal mondo intellettuale ci si aspetterebbe un contributo alla crescita della comunità con la passione per lo studio; ma troppo spesso ci si ferma all’apprezzamento di ciò che nell’ebraismo il mondo esterno considera chic e arguto, si pensa che l’essenza dell’ebraismo sia la discussione e la dialettica e non quello che la dialettica dovrebbe insegnare a fare. E tutti dovrebbero crescere guardando il vasto mondo ebraico di cui l’ebreo romano e italiano è parte nobile, ma non esclusiva e isolata, e riflettere sul fatto che quello che si considera un modello ideale è solo il risultato di un compromesso un po’ penoso e patetico del tentativo di sopravvivere tra gli altri a prezzo della nostra identità e della nostra tradizione.
In questi ultimi mesi il mondo più vicino a noi, quello dei paesi arabi mediterranei, si è scosso e nessuno sa se ne deriveranno società e sistemi migliori o persino peggiori di quelli che vengono abbattuti. Certo è che molto sta cambiando, a cominciare dal ruolo tradizionale della leadership. A scuotere i regimi sono masse di individui, non più i capi carismatici. Una parabola chassidica racconta del re degli animali, il leone, che un giorno era molto arrabbiato. Andarono dalla volpe per chiederle di placare il leone, come sempre aveva fatto in passato, raccontandogli una favola. Ma la volpe rispose che la paura le aveva fatto dimenticare tutte le favole. Così tutti gli animali dovettero misurarsi singolarmente e insieme con il leone. A Kippur, spiegava il Ba’al Shem Tov, accade la stessa cosa, nessuno può delegare, non ci sono capi carismatici, rabbini o altri su cui basarsi. Ognuno gioca con le sue forze. Ma le forze di ognuno sono inesauribili, anche se non ce ne rendiamo conto. La cosa più difficile che ci viene chiesta in questo momento di Ne’ilà è di cambiare. Cambiare stile di vita, di pensiero, di comportamento, dispiegando l’enorme energia che abbiamo in noi. Proviamoci, pensiamoci in questa ora straordinaria in cui le porte del cielo si chiudono.
A tutti chatimà tovà.
rav Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo di Roma
L’Unione Informa 9 ottobre 2011