Il 18 agosto del 1994 scomparve a Gerusalemme il professor Yeshayahu Leibovitz, uno dei principali protagonisti della cultura israeliana del ventesimo secolo.
Daniel Haviv
Leibovitz era laureato in medicina, in biochimica e in chimica ed era stato professore di chimica e di neurologia fino al 1970 all’Università Ebraica di Gerusalemme, ma il suo nome è più legato al suo pensiero etico e filosofico, soprattutto ebraico (ma non solo), che alle scienze. Egli era una figura poliedrica e controversa, un raro esempio di persona nella quale la stretta osservanza della halakhah e la conoscenza profonda della Torah scritta e orale si accordavano perfettamente con la sua qualità di scienziato e ricercatore rigoroso e prolifico. Tant’è vero che Leibovitz è un solido punto di riferimento per coloro che cercano di mettere d’accordo fede e scienza.
A questo proposito egli scrisse più volte che la Torah non è un libro di scienze naturali e non ha come scopo fornire all’uomo conoscenze sulle leggi dell’universo. Nei miei primi anni in Israele (primi anni ’80) ebbi la fortuna di assistere di persona ad alcune sue lezioni e conferenze e restai affascinato dal suo stile oratorio e dal carattere completamente originale delle sue idee, spesso in netto contrasto e in critica aperta rispetto all’establishment israeliano, sia religioso che politico. Il suo modo di esprimersi era trascinante e faceva sempre trasparire una grande sicurezza di sé, essendo le sue opinioni basate su una concezione filosofica molto chiara e coerente, per cui molti in Israele, anche se avversari, erano attratti come calamite alle sue conferenze. Leibovitz è noto per i molti libri che ha scritto su molti argomenti (ebraismo e Israele, politica, filosofia e filosofia della scienza) e anche per i suoi interventi alla radio e alla televisione. Uno di questi, che godette di un alto indice di ascolto e che in seguito fu raccolto anche in un libro di notevole spessore, fu il suo ciclo settennale di lezioni radiofoniche, ogni venerdì pomeriggio, sulla parashà della settimana. In queste lezioni egli usava presentare le interpretazioni dei maestri di tutte le epoche, e metterle a confronto, mentre le sue opinioni personali sui vari passi della Torah a volte trasparivano fra le righe e a volte venivano esposte e spiegate da lui esplicitamente.
Nel campo della politica israeliana, compreso quella dell’establishment religioso, si era spesso trovato all’opposizione, specialmente in seguito alla Guerra dei Sei Giorni e alla conseguente occupazione di nuovi territori. La sua opinione fondamentale in questo campo era che il conflitto fra israeliani e palestinesi sia irrisolvibile in senso assoluto o, usando la sua espressione, ad hormah (fino all’ultima goccia di sangue). La sua critica di ebreo ortodosso nei confronti del rabbinato israeliano era in sostanza che, essendo il rabbinato un ufficio dipendente e subordinato allo Stato, esso traeva la sua autorità dallo Stato stesso, cosicché lo Stato diventava in questo modo la “fonte prima” dell’autorità della halakhah, al posto della Torah. Questo fatto egli poi collegava col “culto dello Stato” presente in certi ambienti nazionalisti e, peggio, col culto della terra e delle pietre, cose in cui egli vedeva forme esecrabili di fascismo e di idolatria.
Un altro punto sul quale Leibovitz usava spesso soffermarsi trattando di ebraismo era il dualismo fede fine a se stessa (lishmah) e fede non fine a se stessa (lo lishmah), argomento che egli trattò esplicitamente nel libro “Cinque Libri di Fede” (ed. Giuntina). La prima si esprime nell’attuazione dei precetti in quanto imperativi assoluti e incondizionati, come puro servizio divino, mentre la seconda si esprime come servizio divino condizionato al premio (o al castigo), e quindi in fin dei conti al servizio dell’uomo. Ma essendo l’uomo Zulatò (qualcos’altro da Lui), la fede “lo lishmah” è per Leibovitz una forma di idolatria. Questo è il motivo per cui Leibovitz considera la fede cristiana e certe forme di superstizioni ebraiche forme di idolatria, Dio al servizio dell’uomo.
Nei suoi ultimi anni il suo conflitto con le istituzioni si inasprì fino al punto che nel 1993 rifiutò di accettare il Premio Israel in seguito all’accesissimo dibattito pubblico provocato da alcune sue espressioni poco felici e completamente al di fuori del consenso della maggioranza.
Ma nonostante tutto Yeshayahu Leibovitz resta una figura d’importanza centrale nel paesaggio culturale israeliano ed è ancora e sarà per lungo tempo un polo di riferimento per molti e i suoi scritti una fonte inesauribile di risposte alle loro domande.
Che sia il suo ricordo di Benedizione.
L’Unione Informa 18 agosto 2011