Gli autori sono spesso immigrati ebrei. L’ispirazione è la lotta ai soprusi
Matteo Persivale
Da bambino il romanziere Michael Chabon, alle lezioni domenicali di ebraico, cercava di nascondere al maestro la sua «peccaminosa» ossessione per i fumetti dei supereroi. «Non parlavano di fuggire dalla realtà come sosteneva lui – scrisse molti anni dopo Chabon in un’introduzione al suo libro Le avventure di Kavalier e Clay (Rizzoli) che dei fumetti dei supereroi racconta l’epopea gloriosa degli anni ’40 – Parlavano di trasformazione».
E’ difficile riassumere in modo più conciso e eloquente il motivo per il quale a distanza di tanti decenni i supereroi dei fumetti continuano a affascinare, e a ispirare un film hollywoodiano campione d’incasso dopo l’altro (ultimi in ordine di arrivo il nuovissimo Thor e Capitan America – Il Primo Vendicatore, negli ultimi anni la saga di X-Men e quella di Hulk e dei Fantastici Quattro, Spiderman e Iron Man hanno vendemmiato centinaia di milioni di euro al botteghino mondiale).
Quando parliamo di supereroi parliamo della vita quotidiana che diventa speciale, di assistere alla trasformazione dei limiti – e della routine – della nostra vita quotidiana che così spesso ci va stretta. I comics non sono il grimaldello per scappare dalla camicia di forza dei nostri limiti – quello era Houdini, cioè un mago e non un supereroe. Ancora Chabon ci ricorda che i supereroi nascono con il primo numero del giornaletto «Action Comics», giugno 1938, il pianeta Krypton che esplode, Superman che arriva sulla terra. Il mito del superuomo nietzschiano filtrato attraverso la sensibilità di un immigrato ebreo nell’anno in cui l’Europa – proprio come Krypton – sta per esplodere, la guerra mondiale alle porte e la Grande Depressione che a nove anni dal crac di Wall Street continua a azzannare l’America. Un’America in bianco e nero che viene subito conquistata dai colori brillanti, primari, di quelle strisce designate dove l’imbranato con gli occhiali è in realtà l’uomo più forte del mondo, capace anche di volare – più trasformazione di così…
I fumetti come strumento per superare i nostri limiti, non per scappare ma per trovare una soluzione alternativa al famoso racconto di Kafka, lungo esattamente un paragrafo, nel quale un topolino si lamenta che il mondo è diventato sempre più stretto e angusto fino a circondarlo e spingerlo verso una trappola finché un gatto gli ricorda che per cambiare il suo destino gli basta voltarsi, e essere mangiato. Un altro scrittore, David Foster Wallace, era solito assegnare questo mini-racconto quasi Zen, capolavoro di filosofia e humor nero – Kafka, tutt’altro che lugubre, era solito leggere a alta voce le sue storie agli amici ridendo a crepapelle ci ricorda Max Brod – ai suoi studenti all’università. E personaggi come quelli della Marvel – Spider-Man, Iron Man, gli X-Men, Hulk, i Fantastici Quattro, Thor e Captain America – e quelli della rivale DC Comics – Superman, Batman, Wonder Woman, Aquaman, Flash – sono spesso figli di immigrati ebrei.
Batman creato da Bob Kane (1915 – 1998), Superman da Jerry Siegel (1914 – 1996) e così via in una «hall of fame» che negli anni ’90 fu al centro di una grande e definitiva mostra al Museo Ebraico di New York, che rese onore a una lunga lista di maestri da Will Eisner a Lou Fine, da Irwin Hasen a Jack Kirby, da Joe Kubert a Joe Simon, nomi sacri per i fans dei fumetti dell’«età dell’oro». I supereroi insomma sono figli di uno sguardo alternativo sull’America, lo sguardo dell’immigrato dai ghetti europei che guarda con curiosità sotto il cofano della nuova scintillante macchina americana – ma con una buona dose di senso civico e della giustizia, visto che il vero supereroe lotta contro i soprusi. Ma i supereroi sono anche più simili a noi di quanto si pensi: per esempio quelli con il costume ma senza maschera, quelli che non hanno bisogno di celare il loro volto (come Superman e Wonder Woman e 3/4 dei Fantastici Quattro). O il Capitan America che disgustato dal Watergate si sfilò il costume col bandierone ripose lo scudo cambiò nome e vagò infelice facendosi chiamare Nomad, una specie di triste samurai senza padrone. I fumetti sono insomma più seri di quel che si pensi perché la loro trasformazione di cui parla Chabon è anche la nostra. Nel nome della giustizia diventano quello che vorrebbero – che vorremmo – essere.
http://www.corriere.it/cultura/11_maggio_09/persivale_fumetti_64db5362-79fe-11e0-a5b9-91021abd11c5.shtml