L’ebraismo italiano è cresciuto ma non riusciamo ancora a trasmettere una cultura forte
Roberto Della Rocca*
Alcuni giorni fa ho partecipato alla Tefillah del mattino nella scuola elementare della Comunità ebraica di Torino. Sono rimasto colpito nel vedere come molti bambini non ebrei, regolarmente iscritti alla scuola ebraica, fossero coinvolti nella Tefillah. Non ho potuto fare a meno di pensare a quanti bambini ebrei, soprattutto nelle scuole ebraiche di Roma e di Milano, rifiutano invece, talvolta con sussiego, l’invito a partecipare alle Tefillot.
Questa particolare esperienza – Torino non è un caso unico perché anche nella scuola ebraica di Trieste avviene la stessa cosa – mi ha fatto riflettere su cosa intendiamo in Italia quando parliamo di educazione ebraica. Ha senso offrirla a chi ebreo non è? Dipende, evidentemente, dall’obiettivo che ci si pone.
Se lo scopo è quello di allevare un certo numero di giovani a vivere da ebrei, la risposta non può essere che negativa: si rischierebbe di assumere una posizione di presunta superiorità e di colonialismo culturale che sono estranei ai nostro modo di relazionarci con chi ebreo non è. Ma se lo scopo è quello di fornire anche ai non ebrei elementi di cultura ebraica che possano allargare la cerchia di coloro che desiderano conoscerci, allora credo che non solo sia lecito, ma addirittura doveroso farlo.
Per esempio, consideriamo la leggenda della crudeltà del Dio degli ebrei, che ci avrebbe prescritto la legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”): “educazione ebraica” significa in questo caso far conoscere le fonti rabbiniche, quelle insegnate dai tanto deprecati Farisei, che alla ritorsione sostituiscono il risarcimento di lucro cessante, danno emergente, permanente e fisiognomico, secoli prima che in Europa ci si occupasse del problema. Un altro insegnamento si può trarre dalle dispute fra Maestri, che terminano decidendo a maggioranza quale sia la norma da rispettare. Ma citando nel verbale anche l’opinione di minoranza, esempio di correttezza e di democrazia. È tuttavia sufficiente questo per parlare di educazione ebraica? Il processo educativo non può esaurirsi solo nella trasmissione di nozioni, sensazioni interiori e storia passata. Alle strutture educative e al rabbinato spesso le famiglie delegano tutta la responsabilità dell’educazione dei loro figli, esentandosi così dal compito di educatori in prima persona.
Così, il Maestro/Rabbino è spesso raffigurato come quel limite estremo di ebraismo da cui apprendere cultura, senza tuttavia cercare di imitarne il modello di vita. Questo atteggiamento non è solo il fallimento di una struttura educativa, ma quello di una Comunità che non riesce a trasmettere l’ebraismo come cultura quotidiana che si esprime attraverso le azioni. Le scuole ebraiche sono oggi scuole ebraiche, scuole degli ebrei o scuole per ebrei? I nostri istituti sono stati e continuano a essere uno spazio di approfondimento e di confronto fra diversi modelli di vita ebraica, nel rispetto delle varie sensibilità. Anche se nella maggior parte dei casi a importare è più una formazione etica e storica che la condivisione di una fede e di una prassi.
Lo studio della Torah è sempre stato considerato fondamento dell’esistenza ebraica: uno studio non fine a se stesso, ma teso ad apprendere gli insegnamenti di vita e le norme da applicare. La Torah non è solo la sede del messaggio di Dio all’uomo, ma il più importante testo di formazione. Non vi è esposta una teoria pedagogica sistematica, ma gli esempi, le parole, le vicende in essa narrate sono fonte di principi e istruzione. Il sistema educativo ebraico non è dunque un sistema basato sul passaggio dalla teoria alla pratica, ma funziona nella direzione opposta, dalla pratica alla teoria, senza il prevalere di un aspetto sull’altro.
Oggi assistiamo allo sviluppo di nuove forme di consapevolezza e di conseguenza a inevitabili lacerazioni. Rispetto alle generazioni precedenti, oggi abbiamo l’opzione della libertà: dalla costrizione, dalle persecuzioni e dalla omogeneizzazione culturale. Siamo ebrei che hanno scelto coscientemente di trasmettere l’identità ebraica.
È finito il tempo in cui lo studio e l’osservanza erano scaricati a un gruppetto, al “clero”. Non siamo più testimoni di quella separazione che vedeva disgiunti e incompatibili il raggiungimento di traguardi nella vita politica e culturale della società dai compiti “religiosi” delegati a coloro che ricoprivano un ruolo cui non veniva riconosciuto alcun valore e in cui la pratica dell’ebraismo sembrava il residuo di un passato di cui sfuggiva il senso. Si inizia a capire che tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri e i rabbini si devono distinguere soprattutto come Maestri, il cui ruolo primario è aiutare e promuovere la sempre più diffusa riscoperta di vita e cultura ebraica. Non possiamo individuare nella tradizione italiana un valore assoluto, al solo scopo di crearci un alibi per la mancanza di studio. Quello italiano si è ridotto a un ebraismo troppo etico e storico, ma privo del legame con i suoi testi originari. Su questo si usi gioca il confronto tra l’ebraismo italiano attuale e gli altri ebraismi del mondo. Nel pianeta dei media è impensabile l’isolamento, sarebbe un atto di presunzione che potrebbe comportare l’emarginazione.
L’ebraismo italiano è in gran parte assimilato, ma soprattutto ignorante, pur con varie distinzioni, dei propri fondamenti culturali e religiosi, con un’identità mascherata, che vive nel compromesso tra un’ortodossia di facciata e un riformismo di prassi, tra un conservatorismo di idee e una sostanza evanescente. Non si è mai affrontata culturalmente e concettualmente in maniera seria questa questione, lasciando che l’ebraismo italiano mostrasse così un volto diverso da quello vero. Siamo o non siamo “ortodossi”? Cosa intendiamo quando parliamo di Torah: cultura, etica, norma oppure quello che gli “ortodossi” chiamano Torah? Siamo testimoni del fenomeno di ragazzi che frequentano per anni le istituzioni socio-educative ebraiche e poi repentinamente si allontanano. Non siamo abbastanza consci dell’inadeguatezza dell’educazione ebraica, dovuta soprattutto alla mancanza di un obiettivo definito che riguarda il tipo di ebreo che vogliamo aiutare a formarsi.
Affinché l’ebraismo sia considerato importante nella vita dei nostri figli, esso deve comprendere una sincera dimensione di contenuti maturi e non rimanere a un livello infantile. Quando la cultura ebraica resta passiva, non frequentemente vissuta, o un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante, perfino banale, se paragonata alla cultura dominante in cui viviamo. Il problema nasce, secondo me, dal fatto che la nostra concezione dell’educazione ebraica la considera troppo spesso un complemento relegato nei ritagli di tempo. È un approccio di natura letteraria, romanzesca, alla propria identità, che genera una visione della vita ebraica quasi fosse una realtà virtuale, una gloria del passato.
Dobbiamo iniziare a sviluppare una visione dell’identità ebraica attuale e autonoma, una concezione qualitativa, che sostituisca quella che la pressione sociale esercitata dalla realtà circostante propone, o talvolta impone, una diversa idea dell’esistenza meglio confacente alle esigenze della vita ebraica. Fare educazione significa lavorare sulle proprie rappresentazioni di sé e del mondo: qual è l’immagine culturale ebraica che vogliamo acquisire e comunicare? Questo è il quesito che dobbiamo porci e le risposte che daremo saranno decisive per le nostre scelte e tali da misurare il valore che ha per noi tutti l’educazione ebraica dei nostri figli.
*Direttore del Dipartimento Educazione e Cultura UCEI
Pagine Ebraiche, maggio 2011