Alberto Somekh
Nel suo Commento alla Haggadah di Pesach Rav Eliezer Ashkenazì, un Maestro italiano del XVII secolo, si domandava perché ci siano ben tre feste di redenzione nel nostro calendario. Per insegnare il concetto non ne sarebbe bastata una sola? Egli risponde che ci sono tre modi per salvare una persona aggredita da altri. Si può far fuori l’aggressore per conto della vittima; dare alla vittima la forza di combattere da solo con l’aggressore o far sì che l’aggressore elimini se stesso. In corrispondenza di queste tre modalità sono state istituite altrettante feste “di redenzione”.
A Hanukkah il Santo Benedetto ha dato a Israele, ancorché in minoranza, la forza di combattere i greci da solo, consegnando “i forti nelle mani dei deboli, i molti nelle mani dei pochi”. A Purim il Santo Benedetto ha fatto in modo che i persiani stessi si facessero fuori da soli attraverso la revoca dell’editto di distruzione. A Pesach, infine, “il S. combatterà per voi (contro gli Egiziani) e voi ve ne starete quieti” (Es. 14,14). A ben vedere Pesach si eleva al di sopra delle altre due feste, in quanto le comprende e le sublima entrambe. Scrivono infatti i commentatori che a Purim prevale l’aspetto della salvezza materiale dal pericolo di uno sterminio fisico e i precetti della giornata ruotano intorno al cibo e al vino, mentre non è prescritta la recitazione dell’Hallèl, la serie di Salmi (113-118) in lode e ringraziamento del S. A Hanukkah invece i nostri Padri corsero il rischio dell’assimilazione forzata e dell’annientamento spirituale. Conseguentemente le mitzvot degli otto giorni si concentrano intorno al motivo della lode del Santo Benedetto e del ringraziamento: si recita l’Hallèl, ma non sono prescritti pasti festivi.
Il Seder di Pesach rappresenta una sintesi mirabile di entrambi i motivi: in esso trovano adeguato spazio tanto il motivo del cibo (con i due alimenti di precetto, la matzah –azzima- e il maròr –erba amara-) e del vino (i “quattro bicchieri”) che quello dell’Hallèl. La ragione è che in Egitto sperimentammo tanto il passaggio dalla schiavitù alla libertà materiale che la liberazione spirituale dall’idolatria al monoteismo. Ne è testimonianza efficace la controversia fra il Rav e Shemuel (Babilonia, III sec.) se si deve cominciare il Magghid, la parte narrativa della serata, con il brano ‘Avadim Hayinu (“Schiavi fummo”), che allude al primo motivo, o con le parole Mittechillah ‘Ovedè Avodah Zarah Hayù Avotenu (“Inizialmente i nostri padri erano idolatri”) che allude al secondo. La mancata soluzione della controversia ha fatto sì che recitassimo entrambi i brani. Non è un caso che proprio l’invito iniziale rivolto a tutti i potenziali ospiti (Ha lachmà anyà) è duplice: “chiunque ha fame venga e mangi; chiunque ha bisogno venga e faccia Pesach”. È noto che vi sono due tipi di ebrei: a colui che sembra prediligere il motivo spirituale e “religioso” si fa presente che Pesach è stata anche una salvezza materiale da chi voleva sterminarci fisicamente, gettando i nati maschi nel Nilo prima e con la dura schiavitù poi. Colui invece che vede nella festa solo o prevalentemente un motivo di gioia materiale e conviviale viene portato a riflettere che il Seder è anche e soprattutto un’occasione spirituale. Come afferma un grande Maestro dell’ebraismo contemporaneo, la Shekhinah è presente alla tavola del Seder (Rav Ovadyah Yossef, Comm. alla Haggadah Chazòn ‘Ovadyah).
Già in Esodo12,15 troviamo l’obbligo di mangiare la matzah, prima dell’uscita dall’Egitto e prima che gli ebrei si avvedessero di non aver il tempo per far lievitare il pane destinato al viaggio: il comandamento della matzah era dunque già stato dato prima dell’evento storico che lo avrebbe motivato. Così scrive Abrabanel nel suo commento alla Haggadah, ma a ben vedere l’osservazione è già implicita nei commentatori medioevali a Esodo 13,8: baavur zeh assah H. li betzetì mi- Mitzrayim (“per questo scopo il S.B. mi ha fatto – tutto ciò – allorché uscii dall’Egitto”). Rashì commenta: “affinché osservassi le Sue mitzvot, come Pesach, matzah e maròr”.
Ancora più diffuso Ibn Ezrà: “Ci saremmo aspettati l’affermazione inversa: osservo queste mitzvot per quello che il S. fece per me all’uscita dall’Egitto. Ma invece è il contrario. Affinché compissimo questo servizio divino che consiste nel mangiare la matzah e nell’astenersi da ogni cibo lievitato e che è il principio delle mitzvot che il S. ci ha comandato Egli ha eseguito per noi tutti i miracoli con cui ci ha portato alla liberazione dall’Egitto. Egli ci ha tratto dall’Egitto perché lo servissimo, come è scritto: “quando farai uscire il popolo dall’Egitto servirete D. su questo monte (Sinai)” (Es. 3,12), e ancora: “vi ho tratto fuori dalla terra d’Egitto per essere il Vostro D.” (Num. 15,41). Sono dunque le mitzvot la causa dell’Esodo e non l’Esodo la causa delle mitzvot.
Non le mitzvot al servizio della Storia, ma la Storia al servizio delle mitzvot. “Il vantaggio per cui è stata voluta l’uscita dall’Egitto –scrive ancora Rav Eliezer Ashkenazì- ci tocca in ogni generazione, perciò “in ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerare se stesso come se personalmente fosse uscito dall’Egitto”… Dal momento che secondo la Torah la matzah e il maròr che noi osserviamo in ogni generazione sono la ragione dell’uscita dall’Egitto, quando la matzah e il maròr sono disposti sulla tavola è il momento di realizzare lo scopo stesso dell’uscita dall’Egitto: rendere nota l’azione divina di generazione in generazione per tramite nostro”.
“E il Magghid non dice: “racconterai a tuo figlio nel momento in cui la matzah e il maròr saranno disposti davanti a lui”, cioè davanti al figlio, perché non è detto che questi comprenda da solo la novità e il senso di questi cibi, bensì dice che dovrai dedicarti al racconto quando matzah u-maròr munnachim lefanekha: “davanti a te”, cioè al padre”. Non ci si aspetti che i nostri figli seguano le tradizioni senza un adeguato impegno dei genitori. L’esempio personale è il primo segreto di ogni buon educatore.
Pagine Ebraiche, aprile 2011