Hilary Putnam
Emmanuel Levinas è famoso per l’affermazione secondo cui l’etica è filosofia prima; con questo intende non solo che l’etica non deve essere ricavata da una qualche metafisica, nemmeno una metafisica “ontica” (ossia “anti-ontologica”) come quella di Heidegger, ma anche che l’intera riflessione su ciò che vuol dire essere un essere umano deve iniziare con una simile etica “non fondata”. Ciò non significa che Levinas vuole negare la validità, per esempio, dell’«imperativo categorico»: quel che rifiuta è ogni formula come «comportati in questo e quest’altro modo perché…». In molti e diversi modi egli ci dice che è disastroso affermare «Tratta l’altro come un fine e non come un mezzo perché…».
Eppure alla maggior parte delle persone sembra che ci sia un ovvio “perché”. Se si chiede a qualcuno: «Perché dovremmo agire in modo da volere che le massime delle nostre azioni siano leggi universali?», oppure: «Perché dovremmo trattare sempre l’umanità negli altri come un fine e mai come un mezzo puro e semplice?», o ancora: «Perché dovremmo cercare di alleviare la sofferenza degli altri?», novantanove volte su cento la risposta sarà: «Perché fondamentalmente l’altro è uguale a noi». L’idea – o piuttosto il luogo comune – è che se capissi in che misura l’altro è come me, sentirei automaticamente il desiderio di dare una mano. Ciò nonostante, basta anche solo accennare ai limiti di una tale “fondazione” dell’etica affinché questi diventino ovvi.
Il pericolo di fondare l’etica sull’idea che noi siamo tutti «fondamentalmente uguali» è di aprire una porta all’Olocausto: basta solo pensare che alcune persone non sono “davvero” uguali per distruggere tutta la forza di una simile costruzione. Non c’è solo il pericolo di una negazione della nostra comune umanità (i nazisti affermavano che gli ebrei erano animali ripugnanti dotati di una forma umana apparente!): ogni buon romanziere ci fa calare nella vastità della diversità umana, e molti romanzi pongono la domanda: «Se tu sapessi davvero come sono le altre persone, proveresti mai compassione per loro?».
I kantiani faranno tuttavia notare che Kant si era reso conto di ciò, e per questo ha fondato l’etica non sulla “simpatia” ma sulla nostra comune razionalità; ma allora che ne è dei nostri obblighi nei confronti di coloro la cui razionalità possiamo, più o meno plausibilmente, negare?
Queste sono ragioni etiche per rifiutarsi di basare l’etica su un “perché” metafisico o psicologico. Levinas considera la metafisica un tentativo di vedere il mondo come una totalità, dall'”esterno”, per così dire, e al pari di Rosenzweig, che cita, ritiene che in una tale prospettiva si perda il significato che la vita ha per il soggetto umano. Ecco cosa dice a Philippe Nemo: «Nella storia della filosofia ci sono state poche proteste contro questa totalizzazione. Per quanto mi riguarda, ho incontrato per la prima volta una critica radicale della totalità nella filosofia di Franz Rosenzweig, la quale rappresenta essenzialmente una discussione di Hegel (…) In Rosenzweig si ha dunque una disgregazione della totalità, e l’apertura di una via completamente diversa nella ricerca del sensato».
L’audace mossa di Levinas è di sostenere che l’impossibilità di una fondazione metafisica dell’etica mostra che c’è qualcosa di sbagliato nella metafisica, non nell’etica. (…)
Per comprendere questo pensatore profondamente originale è essenziale capire due fatti: che (1) Levinas attinge a temi e fonti ebraici, e (2) Levinas universalizza l’ebraismo (paradossalmente, perché è un ebreo ortodosso). A ogni modo, è necessario tenere a mente che il suo ebraismo mostra una diffidenza “lituana” nei confronti del carismatico. Se il cristianesimo conferisce valore al momento in cui un individuo sente la presenza carismatica del Salvatore che entra nella sua vita, l’ebraismo, come lo presenta Levinas, diffida del carismatico. Scrive perciò in Una religione da adulti: «Ma tutto il suo sforzo – dalla Bibbia alla chiusura del Talmud nel VI secolo e attraverso la maggior parte dei commenti della grande epoca della scienza rabbinica – consiste nel comprendere tale santità di Dio in un senso che rompe con il significato numinoso del termine. Il giudaismo rimane estraneo a ogni ritorno offensivo di tali forme di elevazione umana, le denuncia come l’essenza dell’idolatria. Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà si offende di questi surplus incontrollabili. Tale potenza in certo modo sacramentale del divino appare al giudaismo come qualcosa che ferisce la libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che rimane azione su un essere libero. Non che la libertà sia un fine in se stessa. Ma essa rimane la condizione di qualunque valore l’uomo possa raggiungere. Il sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza. E in Per un umanismo ebraico Levinas scrive: «Il no opposto dagli ebrei (e in modo tanto pericoloso nel corso dei secoli) agli appelli della Chiesa non esprime un’assurda testardaggine, quanto la certezza che importanti verità umane dell’Antico Testamento si perdono nella teologia del Nuovo».
Quali sono queste «importanti verità umane» che Levinas universalizza? Evidentemente la sua nozione di “ebraismo” è sia selettiva sia idiosincratica, ma non è priva di una base. L’ebraismo rabbinico si è trasformato completamente dopo la caduta del Tempio: tale trasformazione ha comportato sottoporre tutti i testi religiosi, Bibbia ebraica inclusa, a un processo di interpretazione letteralmente senza fine (David Hartmann ha descritto il popolo ebraico come una «comunità di interpretazione»). La generazione fondatrice dell’ebraismo rabbinico, la generazione che vide la distruzione di Gerusalemme e cominciò a Jamnia la costruzione di una nuova modalità di culto, non basata sul Tempio, includeva figure come il rabbino Johanan ben Zakkai, il rabbino Gamaliel, il rabbino Joshua ben Hananiah e l’immensamente erudito rabbino Eliezer ben Hyrcanus. Un racconto del Talmud (Baba Metzia 59a-b) riferisce che in una disputa con alcuni degli altri membri del gruppo di Jamnia, Eliezer ben Hyrcanus sollecitò una serie di miracoli (che poi accaddero), inclusa una “voce celestiale” (bat kol), per provare che aveva ragione, ma perse il dibattito nonostante la voce celestiale e i miracoli. «Non teniamo conto di una voce celestiale», dissero i rabbini a Dio, «perché al Monte Sinai hai scritto nella Torah “di seguire la maggioranza”». Il Talmud continua dandoci la reazione di Dio: narra che il rabbino Nathan, «imbattendosi» nel profeta Elia, chiese cosa avesse fatto allora Dio; «Ha sorriso», rispose Elia, «dicendo: i miei figli mi hanno sconfitto, i miei figli mi hanno sconfitto!». Quantunque alcuni dei commentatori dello stesso Talmud affermino che i miracoli erano solo immaginati e non accadevano effettivamente, non c’è alcun dubbio che in questa riunione cruciale a Jamnia l’ebraismo si allontanò da ciò che Levinas chiama il “numinoso”: da allora in poi l’autonomia umana doveva avere una voce nel determinare il significato del Comandamento divino.
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