Una realtà senza punti di riferimento. Manca una comunità organizzata nonostante la religione si fondi sulla preghiera comunitaria
Sandra Lucchini
Crede in Dio? «Ho difficoltà a trovarlo». Paolo Momigliano Levi, illustre storico di Aosta, si definisce «ebreo laico», legato alla comunità ebraica dal filo indelebile della Storia, maestra di vita e di cultura. Ha seguito le persecuzioni di questo popolo, fondato da Abramo; ha, in particolare, centellinato pagine e pagine di storia, interiorizzandone il tormento. «Se dovessi allontanarmi mi sembrerebbe di tradirli. Mai», sottolinea.
Vive l’ebraismo, la prima religione monoteista con radici di oltre 4 mila anni, in una regione dove è quasi impossibile conoscerne le presenze. E’ la sua grande curiosità. «Non riesco ad esaudirla – confessa -. Mi attraggono i molti cognomi di origine ebrea, senza, però, riuscire ad approfondire questo importante aspetto. Trèves, Milloz, David sono parte di cultura e religione ebraica». Studi più specifici gli hanno consentito di soddisfare, in parte, il desiderio di avere un numero di riferimento: «Nel 1938, gli ebrei erano 12 arrivati ad Aosta per motivi di lavoro, forse». Guarda con malinconia l’inesorabile discesa numerica degli ebrei italiani: «Nell’immediato dopoguerra, quando la popolazione italiana contava 45/46 milioni di abitanti, erano 44 mila. Oggi, se ne contano 35 mila. A Torino, sono passati da 3 mila a poco più di 900». Si rammarica nel constatare che «l’ebraismo occidentale sembra destinato a morire».
Le cause? «Il genocidio perpetrato da Hitler ha influito in termini altissimi – dichiara Paolo Momigliano Levi – Il processo di assimilazione, poi, ha fatto la sua parte». Esemplifica: «I matrimoni misti (ebrei con altre religioni ndr) hanno portato, in Italia, ad un depauperamento della consistenza numerica. Dall’Italia, inoltre, molti ebrei si sono trasferiti negli Stati Uniti e in Palestina».
Nella sua attività di ricercatore e studioso ha potuto appurare anche l’esistenza di una sinagoga in una via del centro cittadino. «Nella vecchia toponomastica era denominata rue du Temple. Parliamo di un passato remoto», puntualizza.
In Valle d’Aosta non esiste una comunità ebraica. Realtà penalizzante per una Confessione religiosa che fonda i suoi principi nella “preghiera comunitaria”. Lo hanno detto i Padri di questa religione che vede in Cristo il volto più carismatico: «La preghiera più importante è quella che si fa in comune».
Paolo Momigliano Levi dice di aver ricevuto dal padre, ebreo non praticante, uno dei messaggi più importanti della sua vita: ama il prossimo tuo più di te stesso. «Coniugo questa concezione etica con l’obiettivo politico (è un esponente di Sinistra per la città ndr) di favorire l’emancipazione dell’uomo, soprattutto di chi si confronta con un destino difficile». Vive inseguendo l’orizzonte del rispetto delle idee altrui, della libertà, dell’accoglienza. «Nel rito di Pasqua – ricorda – si lascia sempre un posto libero a tavola per ricevere un eventuale ospite, anche sconosciuto, che dovesse arrivare all’improvviso». Considera la preghiera il mezzo più efficace per continuare il dialogo con i cari defunti. «Prego sulla tomba dei miei famigliari sepolti nel cimitero di Ivrea, città dove c’è la Sinagoga». Parla di Primo Levi, l’ebreo che sente più vicino. «Era un laico», sottolinea, esprimendo il suo grande per le letture di autori ebrei. Ammira Wiesel, espressione dell’ebreo credente nell’Est europeo, patria delle persecuzioni.
Pregare, rivolgendosi a Dio senza suppliche, ma per rinnovarGli il «sia fatta la tua volontà». «Andiamo in qualunque chiesa, considerata la nostra massima apertura verso le altre religioni», dice Alessandra Masseglia, di Aosta, esempio di figlia di genitori con religione differente. La madre Bianca, ebrea; il padre Tullio cattolico. «Sono un’ebrea laica, molto legata alla cultura e alle tradizioni – dice -. Il mio Credo riflette la volontà di amare il prossimo, aiutarlo, ospitarlo, rispettandone la sua “forma mentis”».
Approda all’ebraismo dopo aver frequentato, da bambina, il Tempio e la Chiesa. «A 17 anni – racconta – ho scelto di andare in Israele, vivendo un anno in un kibbuz frequentato da giovani di tutto il mondo. Un kibbuz laico. Considero questa esperienza una delle più esaltanti della mia vita». Esaltante al punto da legarsi, in maniera totale, al mondo ebraico. «Un legame culturale, più che religioso», precisa, ripassando in carrellata visiva l’intensità delle giornate. «Sei ore di lavoro e sei di studio della lingua ebraica».
Con quale animo avvertite l’odio manifestato, da secoli, verso gli Ebrei? Sorridono entrambi e, con serafica espressione ipotizzano: «Forse c’è bisogno di inventare un nemico nel momento in cui una società perde la capacità di identificarsi in positivo. La figura del nemico viene individuata nella sua diversità culturale e religiosa. Un odio atavico senza alcuna giustificazione», è il loro commiato.
http://www.aostaoggi.it/2011/gennaio/08gennaio/news20853.htm