A Crown Heights, nel cuore ebraico (e ortodosso) di Brooklyn, le donne sono tutte casa, sinagoga, parrucche. E sesso. Gli appuntamenti al buio? Funzionano come nel resto di New York. Ma portano dritti al matrimonio
Anna Lombardi
Mentre fuori le strade si svuotano Chaya accende le candele, si copre gli occhi con le mani e recita la preghiera del sabato. “Baruch Atah Adonai Eloheinu…”. Uno Shabbat partito con affanno: il tavolo da stiro è stato chiuso in fretta e le camicie spiegazzate sono rimaste sulla sedia, i cibi già cotti sono finiti sullo scaldavivande elettrico appena in tempo. Nathaniel, marito di Chaya da un mese, ha spinto forte sui pedali della sua vecchia Bianchi per riuscire ad arrivare a casa puntuale, con le candele. E quando le luci sono accese l’atmosfera finalmente si rilassa, sul tavolo arrivano pane, olive e formaggio. “Stasera siamo a cena da amici. E poi, sì, si fa… “quello”: il sabato è consigliato oltre che benedetto”.
Lo sguardo diventa complice. “Io e Nat siamo fortunati” ride Chaya, 20 anni. “Ci siamo incontrati per caso e ci siamo innamorati. No, non c’è stato shidduch per me: nessun incontro combinato. Abbiamo però esitato a dirlo ai miei: perché qui ci si fidanza con un solo scopo, il matrimonio, e a due settimane dal primo incontro ti ritrovi già con la fede al dito. Nel nostro caso è passato un po’ più di tempo: dopo sei mesi mio padre ci ha scoperti e ha subito fissato la data. Allora ne ho dovute imparare di cose: il conteggio per far l’amore in determinati giorni, le regole della mikvah, il bagno purificante, la parrucca fatta apposta per me. Ma sono felice – l’ho scritto anche su Facebook – perché ho sposato l’amore della mia vita”.
Non è facile accedere alle case e alle confidenze di Crown Heights, il cuore ebraico di Brooklyn. L’enclave ortodossa dove il sesso non è peccato, anzi. Fare-figli per fare-figli per fare-figli: questo sembra essere il comandamento numero uno di questa comunità che da mezzo secolo si raccoglie intorno al culto del suo messia. A un’ora da Manhattan. E soltanto l’innocente spregiudicatezza di Chaya risolve in un sorriso quello che altrove – e non solo nel mondo ortodosso – è tabù: la gioia, appunto, di una vita tutta casa, preghiera. E sesso.
“Ma è la mia famiglia a essere particolare: mio padre era un hippie, è stato a Woodstock, suona la chitarra. Mamma ha vissuto in un kibbutz. E oggi cura la gente con i fiori di Bach”. I genitori di Chaya sono tra i tanti che hanno finito per trovare Gerusalemme a Brooklyn. La comunità Chabad-Lubavitch di Crown Heights si è data una missione: riportare l’intero ebraismo alle radici. Per questo in famiglia parlano inglese e viaggiano ovunque: per fare proseliti con il loro esempio di rigidi osservanti.
La sinagoga al 770 di Eastern Parkway è il luogo sacro della comunità, tanto da essere stata replicata in diverse parti del mondo, da Israele all’Australia. E pazienza se i muri scrostati, il linoleum, le panche di legno e un vago odore di muffa hanno poco del santuario.
È qui, al terzo piano di questa ex clinica abortiva, che visse il settimo e ultimo rabbino, Menachem Mendel Schneerson, morto sedici anni fa senza eredi. Oggi, pur venerato da tutti, è al centro di una dolorosa divisione interna: tra chi vuol riconoscerlo come Messia e chi lo ritiene semplicemente un essere umano molto illuminato. Fu lui a forgiare questo esercito di 200mila seguaci (11mila nella “capitale” Brooklyn) impegnato in 70 paesi nelle mivtzoim: campagne per riportare gli ebrei alla tradizione. Attraverso l’esempio quotidiano di “adempimento delle leggi” dato dalle famiglie. E soprattutto dalle donne. Che si sposano giovanissime per realizzare il sogno-comandamento: figli su figli su figli. Poi partire: per portare con la famiglia la parola del rabbino nel mondo.
La figlia di Bronya, per esempio: una giovane musicista di talento. La sua insegnante di pianoforte alla prestigiosa Juilliard School la vedeva già su grandi palcoscenici. “Non voleva accettare che mia figlia lasciasse la musica per studiare” racconta mamma Bronya. “Ma questi erano i suoi valori. Ha fatto una scelta consapevole e convinta. Nessuno l’ha obbligata. Ora ha cinque figli e vive in Svizzera con il marito. È una terapeuta. Sposata e felice”. Nella sua casa di Montgomery Street, zeppa di testi ebraici ma anche di libri d’arte e musica, Bronya Sheffer tiene corsi individuali o di gruppo per le ragazze più giovani cercando di “modernizzare” i valori della Torah. Con titoli come “Intimità e coppia ebraica”, “Ortodosse innamorate”, “Sesso Kosher”. Eppure Bronya non è l’intellettuale che ti aspetti. “La mia giornata? Tante lavatrici… Poi, sì, molte conversazioni. Perché aiuto le donne a trovare la propria voce: la comunità è come la famiglia, ci si appartiene, ma deve esserci spazio per l’individualità. Un argomento su cui stiamo lavorando è il rapporto con l’infertilità: è etico usare nuove tecnologie? E poi, come non far sentire escluse quelle che figli non possono averne?”.
A poche strade di distanza incontriamo un’altra domanda. “Sa come siamo andate oltre il femminismo?”. Sara Chana Silverstain, omeopata e ostetrica, chiede e si risponde. “Recuperando il valore della maternità”. Poi inizia a raccontarsi. “Ho più esperienza io di tanti medici: qui ogni famiglia ha almeno sette figli e vedo più casi io a Brooklyn che un luminare altrove. Ho rimedi per tutto. Ricette antiche, efficaci, e facili, che hanno il vantaggio di restituire alla donna il suo ruolo. Perché una donna che sa prendersi cura della famiglia è forte: non si ritrova in balìa di dottori che tendono a marginalizzarla nel momento più importante della sua vita. Altro che epidurale”. Chana ride e continua a parlare, a spiegare, e raccontare. “No, non sono nata ortodossa. Ho cominciato a studiare perché l’unica cosa cui tenevano i miei genitori era che sposassi un ebreo. Volevo dimostrare il contrario e invece ho capito che l’ebraismo non è soltanto una religione, ma una filosofia che rispetta profondamente l’essere umano. Dicono che la nostra “legge di separazione” impedisca i contatti fisici dopo il parto. Ma io ribatto che una donna, in quelle settimane, vuole essere lasciata in pace, deve ritrovare equilibrio, energie”.
Poi c’è Chana Claudia Goldraeich, che offre il tè dopo aver recitato una beracha: una benedizione. Unica italiana della comunità, Claudia è nata a Parma e dice di avere scoperto i Lubavitch a Milano, quando lavorava come truccatrice, per ritrovarsi poi, ventenne, qui a Brooklyn. “Non distinguevo un ebreo dall’altro, però mi affascinava molto questa comunità, per il desiderio di tornare alle radici. Quando la mia compagna di stanza si fidanzò volle presentarmi un amico del suo ragazzo: dopo poco tempo lo sposai. Qui non è l’amore che conta, ma il progetto. I miei genitori però la presero in modo strano: temevano mi fosse accaduto qualcosa di brutto se mi ero buttata così a capofitto nella religione. Invece ero così felice!”. Sorrisi, sguardi con la luce dentro. E il lavoro di estetista? “Basta seguire lo spirito della legge: essere belle è un dovere di dignità. Da fare con testa e con fede. Per esempio usando rossetti speciali, che non vanno via durante Shabbat, quando nulla può essere creato o distrutto”. E i dogmi? “Preferisco quelli di Dio a quelli degli altri. Nessuno si scandalizza se usi la lavatrice seguendo le istruzioni, no? Abbiamo istruzioni per la vita che combaciano con la legge ebraica”.
Tra queste istruzioni per la vita c’è anche quella che segna il passaggio all’età adulta. Ovvero, allo status di donna sposata. La parrucca: le bambine cominciano a giocarci da piccole, le adolescenti ci pensano con un misto di fascino e terrore. E Sheila Goodman, la “parrucchiera” – che taglia infatti solo parrucche perché “per i capelli veri ci vuole la licenza” – qui è un’autentica star. Le sue acconciature vengono commentate sui forum e sui siti ortodossi: una parrucca acconciata da lei è un premio immancabile in ogni lotteria della sinagoga.
Le migliori parrucche sono quelle di Freeda Kugel: prodotte in Ucraina e vendute nel grande negozio di Crown Heights in decine di modelli, dai classici ai corti sbarazzini per le ragazzine che ne vanno pazze. Lavaggio e piega: 65 dollari. Certo, si può anche fare in casa, ma con accortezza: c’è chi l’ha messa in lavatrice e l’ha dovute buttara via. Insomma, anche la moda vuole la sua parte.
“Quest’anno si portano le gonne sotto il ginocchio”, ride Sheila con le sue clienti. “I nostri vestiti diventano fashion”. Alla faccia di chi si immagina un mondo tutto candele e preghiere. Certo: ci sono istruzioni da seguire anche qui. “Niente cinema per i miei figli. E niente Harry Potter. Non che ci sia nulla di male: ma poi si mettono strane idee in testa” confessa per esempio Pearl Itzkowitz. “Mio marito ha portato in casa la tv per guardare lo sport. E io mi sono appassionata a CSI”. Ma come, con tutte quelle scene di sesso e violenza? “Sono una donna sposata: conosco la vita”. E il cinema? “Ho sposato un uomo che non ha mai visto un film e per la verità neppure ai miei figli interessa. Ma non è proibito, dunque ci vado. L’ultimo? Mangia Prega Ama con Julia Roberts”.
In una grande villetta dall’altra parte della strada Rochel Winer, 22 anni, vive con la famiglia, sesta di undici figli. Lavora come agente immobiliare a Manhattan ma è nata a Crown Heights. È truccata con cura e indossa stivaletti bianchi, camicia leopardata stretta in vita da una cintura, una giacca bordeaux. Sua mamma, racconta, fu la prima fidanzata di David Copperfield, il mago. Pochi giorni, fa la sorella appena sposata è andata a vedere un suo spettacolo ed è riuscita a fargli recapitare un biglietto, lui l’ha invitata in camerino. Sapeva che la sua ex era diventata ortodossa e voleva parlarle al telefono: undici figli, la parrucca, ma sei impazzita? “Ma ci ha invitati tutti al prossimo spettacolo che farà a New York”.
A proposito: difficile coniugare Crown Heights e Manhattan? “Da piccola ero gelosa delle cugine che andavano in palestra. Ora i tempi sono cambiati: c’è una palestra anche qui e si fa perfino yoga. Sono fiera di essere ortodossa. E penso di avere più stile di tante altre. Il mio lavoro? Vita da ufficio normale. Certo, non stringo la mano agli uomini, metto la gonna ogni giorno. E prego. Quando il mio capo mi ha chiesto perché, io gli ho risposto, sicura: “Lei lavora per guadagnare in questa vita, no? Io per guadagnare nella prossima””.
In fondo, perfino gli “appuntamenti al buio” per trovare marito non sono un’eccezione in questa metropoli di single chiamata New York. “Solo che non ti sfiori nemmeno se ti piaci: lo spirito viene prima di tutto”. Il sesso può attendere? “Noi non pensiamo ai ragazzi nel modo in cui ci pensate voi. Il vantaggio è che con questi appuntamenti nessuno ti spezza il cuore: ci esci, vai al ristorante, passi al bowling. E se non funziona provi con qualcun altro. Io ho già avuto sei appuntamenti e nessuno giusto. Mio fratello forse trenta: è così difficile, lui”. Altro che Lamento di Portnoy: così Crown Heights riscrive Sex and the City.
La Repubblica D
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