Il nuovo libro di Howard Jacobson “Un amore perfetto”
Luigi Sampietro
Piuttosto noto ma non famoso, Howard Jacobson solo un paio di mesi fa ha dichiarato di non voler più entrare nelle librerie di Londra per evitare l’umiliazione e l’offesa di non vedere mai i propri libri messi in bella vista.
Vigoroso e raffinato, a voce e per iscritto – ce n’è pochi in giro capaci come lui capaci di giostrare con la lingua inglese –, Jacobson si è per anni portato appresso la nomea di «scrittore misconosciuto», anche se la cosa faceva un po’ ridere perché, oltre ad avere firmato una dozzina di romanzi, è da non so quanto tempo un columnist settimanale per «The Independent» ed è stato autore di programmi televisivi di successo (l’ultimo dei quali – sulla storia della Bibbia, nientemeno –, trasmesso lo scorso gennaio su Channel 4).
Bisogna però subito aggiungere che quello di far ridere è il suo destino. Il marchio di fabbrica. Jacobson è infatti uno scrittore comico – come sa bene chi abbia letto Kalooki Nights e L’imbattibile Walzer, entrambi pubblicati da Cargo e già recensiti su queste pagine – ed è forse per questo che non è mai stato preso troppo sul serio dalle varie giurie susseguitesi negli anni al Man Booker Prize: pur essendo stato selezionato due volte per il prestigioso riconoscimento, Jacobson non è infatti mai arrivato in finale. Questa volta, il 12 ottobre – nel giorno della scoperta del l’America –, è stato “scoperto” anche lui. «I am speechless», sembra abbia dichiarato al momento dell’annuncio. Nessuno gli ha ovviamente creduto e alla consegna del premio ha fatto sbellicare il pubblico investendo la giuria con una reprimenda in cui ha letto brani dei vari discorsi di accettazione scritti inutilmente – ha detto – a partire dal 1983. La data del suo primo romanzo.
Ho avuto il piacere di conoscere Jacobson un paio di anni fa alla Fiera del libro di Torino e mi sono fatto l’idea di un cordiale e intelligentissimo attaccabrighe, che nel rispondere alle domande capovolge puntualmente quello che ha affermato in pubblico l’ultima o la penultima volta: per il gusto di “vedere l’effetto che fa” e, soprattutto – si capisce abbastanza in fretta –, per prendere in considerazione un altro e ulteriore punto di vista. «We are a disputatious people», ha detto degli ebrei in una recente intervista. «Non possiamo pensarla allo stesso modo nemmeno per un attimo. Dev’essere il monoteismo che ci spinge alla continua diaspora». Ovvero, il Padreterno è qualcosa che ciascun ebreo vuole tutto per sé.
Jacobson ha vinto il Man Booker Prize con The Finkler Question, due giorni prima dell’uscita in Italia del suo penultimo romanzo, The Act of Love, ben tradotto in italiano da Milena Zemira Ciccimarra, ma con un titolo che trovo fuorviante: Un amore perfetto. A meno che – e in tal caso me ne scuserei con lui – l’editore non contasse sul fatto che il lettore, entrando in una libreria di Sondrio o di Viterbo, sapesse subito che si tratta di un titolo non solo ironico ma addirittura sarcastico. In puro stile Jacobson. Già, ma se così fosse, bisognerebbe che in copertina il nome dell’autore fosse stampato nello stesso corpo del titolo, come avviene con Stephen King, V. S. Naipaul o Philip Roth, tanto per fare un esempio di scrittori che attirano con la sola forza del nome e dai quali chiunque sa che cosa aspettarsi.
Un amore perfetto è la storia del matrimonio tra Felix, proprietario di un negozio di libri antichi nel centro di Londra, e Marisa, una bellona già sposata a un altro uomo, che Felix riesce a fare sua. Detto fatto, però, il serpente della gelosia comincia ad avvolgere le sue spire attorno alla mente dell’infelice Felix: «E se, allo stesso modo in cui ha lasciato il marito, costei lasciasse anche me? Perché escluderlo?». A complicare le cose, un fatterello quasi insignificante. Durante il viaggio di nozze alle Everglades, Marisa si ammala. Mentre il medico la visita, Felix nota che la sua mano indugia un secondo di troppo, forse involontariamente, sul capezzolo della moglie. E, quel che è peggio, Felix si accorge che la cosa lo eccita. È una forma, diciamo così, di “masochismo della mente”. Ma da uomo pratico e di successo, Felix, passa all’azione. Forte della certezza che un «marito non può dire di amare la moglie prima di saperla tra le braccia di un altro», fa in modo che un certo Marius – un nome carico di echi estetizzanti – ne diventi l’amante. Nel precisare che le corna sono, nella percezione del nostro eroe, una raffinatezza postmoderna, vorrei semplicemente aggiungere che quel che può apparire come una cervellotica bizzarria – non trattandosi dello studio, sia pure in forma letteraria, di una patologia della mente – è solo una deliziosa e quasi tragica variazione su di un tema piuttosto banale. Il valore delle cose nel momento della loro perdita.
Immaginiamo che Marisa, invece che quello che è, sia una donna di cui Felix vuole disfarsi; oppure un oggetto qualsiasi: una motocicletta o un mobile che sta per buttar via. E immaginiamo che all’ultimo momento si faccia vivo qualcuno che esprima l’intenzione di prendere per sé la persona o la cosa scartata. In un racconto realistico, avremmo la descrizione di questi stati d’animo. Nella prosa pirotecnica di Jacobson abbiamo una deliberata presa in giro di tutto ciò di cui parla e di coloro cui parla. I lettori.
Si dirà: «Ma questo Jacobson sarà anche comico ma è poco serio». Ed è proprio questo il punto. The Act of Love è un libro complesso quanto la quasi inestricabile abilità retorica e affabulatoria del suo autore. Troppo profondo “filosoficamente” per parlare anche, appunto, in modo serio. Non dimentichiamo che a raccontare la storia è un tipo di voce narrante che oggi i postmoderni definiscono “inaffidabile”. E chi non ci dice che non sia tutto quanto falso? Magari a partire dai resoconti degli incontri intimi con Marius che Felix costringe Marisa a raccontare? O, addirittura, che non sia la stessa astuta Marisa a inventarsi tutto, al modo dell’antica, Sheherazade delle Mille e una notte, perché il loro matrimonio – al di là della follia del marito – possa salvarsi?
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