Howard Jacobson. L’autore de L’imbattibile Walzer ama i perdenti, anche a ping pong, sport amato dalla comunità ebraica. «Gli inglesi temono gli islamici, l’aria contro Israele è sempre più pesante». Ahmadinejad? «Lo chiuderei in una cella con Primo Levi per fargli cambiare idea».
Antonello Guerrera
In Italia, come non di rado accade, è arrivato tardi. Forse perché la sua produzione letteraria è visceralmente legata al suo territorio, ovvero quei tragicomici angoli ebraici di Manchester. Ma Howard Jacobson, scrittore britannico ed editorialista dell’Independent, non poteva essere più ignorato. Bene ha fatto Cargo a portare in Italia nel 2008 il suo Kalooki Nights e poi, a fine 2009, L’imbattibile Walzer (448 pp., euro 19,50) che quando uscì in Inghilterra (nel lontano 1999) vinse il Premio Wodehouse per il libro comico (poi ottenuto due anni dopo da Jonathan Coe).
Il massimo comun divisore della produzione letteraria di Jacobson è uno spudorato, eccentrico e corrosivo jewish humour, presente anche in L’imbattibile Walzer, probabilmente la sua opera più autobiografica: è la storia di Oliver Walzer, ragazzino timido e insicuro che comincia a dialogare con il mondo a colpi di ping pong e controverse esperienze sessuali, dall’adolescenza inzuppata di yiddish all’aspra maturità. Alla vigilia della Giornata della memoria, il Riformista ha avuto il piacere di intervistare l’autore.
Mr. Jacobson, cosa rende lo humour ebraico, ingrediente essenziale dei suoi romanzi, così unico?
Il masochismo. È uno humour che si è sviluppato negli anni come uno scudo dopo tutto quello che la comunità ha passato. Se testi il dolore volontariamente sulla tua pelle, non hai più paura del male che ti possono infliggere gli altri. Lo sa quante battute degli ebrei toccano le viscere più drammatiche della nostra storia, come l’Olocausto o i lager? Scherziamo su tutto, questa è una vittoria intellettuale sui nostri nemici.
Quanto è autobiografico L’imbattibile Walzer?
Moltissimo, più di altri miei romanzi. Innanzitutto c’è il ping pong, una mia grande passione e un’istituzione per la comunità ebraica. Le nostre madri ci dissuadevano dall’intraprendere sport più duri come il rugby e il calcio per dirottarci sul “più sicuro” tavolo da gioco del ping pong. E poi ci sono lo scenario di Manchester, la seconda città inglese per popolazione jewish, la progressiva perdita dello yiddish, gli affari sbagliati di mio padre. Insomma, tutto il mio nostalgico mondo in una calda commedia umana, nella quale Oliver non riesce a realizzare i suoi sogni. Ma mi piacciono i perdenti. Sono più commoventi.
Lei è stato definito il Philip Roth inglese, ma anche la “Jane Austen ebrea”. In chi si riconosce di più?
A dire il vero, mi hanno definito anche il Woody Allen inglese. L’ho visto circa due mesi fa qui a Londra e gliel’ho detto. Lui mi ha risposto: «Mi dispiace!». Una cosa è certa, comunque: tutti si riferiscono al mio essere ebreo. E, mi creda, è raro trovare in Gran Bretagna uno scrittore ebreo che scriva di vicende ebraiche, perché tutti cercano di travestirsi da inglesi. Mentre la più giovane cultura degli Stati Uniti d’America ha un evidente sostrato ebraico, l’Inghilterra ha sempre lasciato poco spazio alla cultura del nostro popolo, perché chiusa in se stessa. Oltremanica ti senti sempre uno straniero e devi lottare tanto per farti sentire.
A questo proposito, da ebreo, come è cambiata la sua vita in una nazione come l’Inghilterra che anno dopo anno incrementa la sua comunità islamica?
Teoricamente non mi sento più alienato di prima. Anzi, è un fenomeno che desta il mio interesse, dal momento che ebrei ed islamici hanno molto in comune nella loro alienazione. Però il dialogo spesso è impossibile perché siamo costantemente distratti da quello che accade in Medio Oriente tra Israele e Palestina. La cosa più preoccupante, tuttavia, è che i britannici sembrano aver paura dei musulmani e li accontentano in diverse circostanze, a differenza degli ebrei. In Inghilterra, Israele viene spesso descritto, a priori, in maniera ingiusta.
È quello che lei, sull’Independent, ha chiamato «l’antico pregiudizio» sugli ebrei?
Certo, soprattutto quando vedo che non c’è spazio per il dibattito politico e ognuno si barrica nei luoghi comuni. Un anno fa è stata emblematica a Londra la rappresentazione teatrale Seven Jewish Children. A Play for Gaza di Caryll Churchill, dove gli ebrei venivano dipinti come demoni, festanti alla morte dei bambini palestinesi. Così si esula dalla mera politica. Le radici di questo astio nei confronti di Israele risalgono alla guerra dei Sei Giorni e poi alla caduta del comunismo nell’89, quando la sinistra, specialmente quella inglese, aveva perso ogni punto di riferimento e allora, riallacciandosi a Marx e Trotskij e visto che gli ebrei erano i “capitalisti ricchi”, si è schierata unilateralmente e irrazionalmente contro gli ebrei.
Lei è stato definito un «sionista liberale». Si riconosce in questa definizione?
Il sionismo è stato travisato da molti, perciò lo difendo: non è un’ideologia brutale, la maggioranza degli ebrei voleva e vuole vivere in pace con i palestinesi. Io, che non sono sionista, resto sempre dell’idea che la coesistenza dei due stati sia l’unica soluzione possibile.
Crede che Ahmadinejad sia capace di un nuovo Olocausto?
Difficile dirlo. Rifiutando di riconoscere la Shoah, è lui il peggior criminale oggi. Lo chiuderei in una cella con Primo Levi per fargli cambiare idea. Certo è che l’aria in generale per gli ebrei è sempre più pesante, anche qui in Inghilterra. Decenni fa non avevamo paura dei musulmani, adesso sì: la propaganda anti israeliana è diventata giorno dopo giorno più feroce.
Cosa voterà alle imminenti elezioni inglesi?
Sicuramente non per i Labour. Mi disgusta che ora, per vincere le elezioni, si facciano vedere con vip e cantanti di ogni tipo, mentre la gente ha un estremo bisogno di educazione e cultura. Ma non posso votare neanche i conservatori, perché tradirei la militanza sindacale di mio padre. Il problema è che l’Inghilterra in questo momento è nel caos, la crisi economica si è portata via anche le idee.
Perché considera la sicurezza nazionale inglese più importante dei diritti civili?
Si parla sempre del Regno Unito come uno stato di polizia controllato dalle telecamere di sicurezza, ma sono stupidaggini. I terroristi ci sono ed è giustissimo avere paura. In situazioni di emergenza come l’11/9 e affini è doveroso che lo stato ponga limiti alle libertà personali per rendere la nostra vita più sicura. Un uomo morto libero non è un uomo libero.
Intervista pubblicata su «il Riformista», 26 gennaio 2010