“Giacobbe uscì da Beer Sheva e andò a Charan” (Genesi 28:10). Molti commentatori hanno affrontato la questione del perché la Torah abbia evidenziato che Giacobbe partì da Beer Sheva, la sua città natale. I versetti immediatamente successivi a questo, che parlano del viaggio di Giacobbe verso Charan e dell’arrivo a destinazione, mettono in rilievo che l’importante era dove Giacobbe stava andando, non da dove stava partendo, rendendo di fatto il primo verso superfluo.
Non solo, ma quanto detto alla fine del brano della scorsa settimana (Genesi (28:7), dove è scritto che Giacobbe, obbedendo alle istruzioni dei suoi genitori, lasciò casa per dirigersi a Charan da suo zio Labano, confermerebbe l’idea che questo intero versetto sia superfluo. Perché, allora, la Torah ha bisogno di ripetere ora che Giacobbe lasciò la sua città natale?
Una risposta particolarmente affascinante a questa domanda, è offerta da Rabbi Azariah Piccio (Venezia 1549 – Rovigo 1647), nella sua opera “Bina Leittim”, nel capitolo in cui analizza gli eventi che si sono svolti dopo la partenza di Giacobbe. Quando era in viaggio verso Charan, “s’imbatté in un luogo” dove pernotto per la notte arrivata improvvisamente. In quella notte Giacobbe fece il famoso sogno di una scala che, piantata in terra, arrivava fino al cielo. Durante questa visione, Dio parlò a Giacobbe al quale promise di prendersi cura di lui e di riportarlo sano e salvo in Terra d’Israele. Quando Giacobbe si alzò, fece la promessa di offrire a Dio un decimo dei suoi beni se Egli lo avesse protetto, si fosse preso cura di lui e lo avesse riportato in patria. Con questo voto, sembra che Giacobbe non fosse totalmente sicuro che il Signore si sarebbe preso cura di lui e lo avrebbe riportato sano e salvo a casa, nonostante avesse appena ricevuto una promessa esplicita in tal senso. Perché?
Inoltre, nel brano della prossima settimana, leggeremo che al ritorno in Terra d’Israele, Giacobbe ricevette un rapporto che Esaù si stava avvicinando con un esercito e per questa notizia Giacobbe fu sopraffatto dalla paura (Genesi 32:8). Perché Giacobbe sembra dimostrare poca fiducia nella garanzia esplicita che il Signore gli aveva dato che sarebbe stato protetto e sarebbe tornato sano e salvo a casa?
Rabbi Azariah Piccio risponde a tutte queste domande postulando che, in realtà, Giacobbe aveva un grande dubbio: il sogno che aveva fatto era davvero una profezia?
Per diversi motivi, poteva aver aver ragione di sospettare che si trattasse semplicemente di un sogno e non di un messaggio profetico.
Uno dei requisiti per ricevere una profezia è avere uno spirito gioioso, ma lo stato d’animo di Giacobbe, in fuga senza un soldo da un fratello che voleva ucciderlo, non sembra sprizzare di gioia.
Un’altro presupposto è il sonno. Quando il Signore vuole mandare un messaggio, fa addormentare il profeta che, ricevuta la profezia, si sveglia subito dopo la visione. Dopo il suo sogno, Giacobbe non si svegliò subito.
È per questo, spiega Rabbi Azariah Piccio, che la Torah sottolinea che al mattino Giacobbe si alzò “mishenato / dal suo sonno” (Genesi 28:16). Questo dettaglio, a prima vista, sembra inutile perché quando qualcuno si sveglia, ovviamente si sveglia “dal suo sonno”. La Torah ci sta dicendo che Giacobbe non si svegliò subito dopo aver contemplato la sua visione, ma continuò a dormire fino al mattino e questo lo portò a dubitare se ciò che vide fosse solo un sogno o una visione profetica.
Rabbi Azariah Piccio applica questo stesso approccio per spiegare la necessità della presenza del primo versetto. Normalmente, ma con rare eccezioni, la profezia viene data solo in Terra d’Israele, e non fuori da essa. Poiché Giacobbe aveva lasciato la sua casa a Beer Sheva e si stava dirigendo verso Charan fuori dalla Terra d’Israele, si considerava come se ne fosse già fuori. Anche questo contribuì a corroborare i suoi dubbi riguardo alla visione notturna che ebbe. Per questo la Torah ha ripetuto la notizia che Giacobbe stava uscendo dalla terra d’Israele per andare verso Charan, per dare una sorta di introduzione al racconto del sogno di Giacobbe, nell’alludere con quella ripetizione, il perché Giacobbe non fosse sicuro se la sua esperienza fosse una profezia o di un sogno ordinario.
Alla fine, naturalmente, divenne chiaro che il sogno di Giacobbe era, a tutti gli effetti, una profezia e il Signore mantenne tutte le promesse che aveva fatto in quella visione profetica.
Questa interpretazione mostra come Giacobbe sia per noi come un grade esempio di umiltà. Sebbene avesse avuto una visione chiara, durante la quale Dio gli promise di protezione e lo nominò erede del patto di Abramo e di Isacco, Giacobbe rimase incerto sulla sua posizione. Non trasse conclusioni affrettate, né si considerò degno delle benedizioni di Dio grazie ai meriti di suo padre e di suo nonno.
Abbiamo molto da imparare dall’esempio di Giacobbe su come evitare l’eccessiva sicurezza che può sfociare in superbia. Dobbiamo, ovviamente, essere orgogliosi dei nostri successi e di tutto il bene che facciamo e riceviamo, dobbiamo però anche assicurarci di non esagerare con questo orgoglio, di rimanere sempre consapevoli delle nostre carenze. Non dovremmo mai sentirci troppo sicuri spiritualmente, certi di fare tutto correttamente, di sapere di più, di fare sempre le cose per bene. Dobbiamo vivere con umiltà, per avere la capacità di riconoscere le nostre imperfezioni così da poterle correggere, per crescere e migliorare con costante continuità, Shabbat Shalom.
