Una questione che già 40 anni fa stava a cuore a un grande Maestro dell’ebraismo italiano. Dalla Rassegna Mensile di Israel del Febbraio-Marzo 1973
Menachem Emanuele Artom ztz”l
Per trattare della posizione della donna ebrea in campo liturgico, occorrerà prima di tutto ricordare quali sono le norme riguardanti l’esecuzione delle Mizvoth da parte delle donne ‑ norme che è bene chiarire ed illustrare per poter basare la trattazione del tema specifico della loro partecipazione, o non partecipazione, alla liturgia.
Principio fondamentale è che le donne sono obbligate a tutte le «mizvoth lo-tha’asè», cioè a tutti i divieti che la Torà impone agli ebrei, ma che esse sono tenute ad osservare, tra le «mizvoth ‘asè», i doveri ebraici, solo quelle la cui esecuzione non deve aver luogo ad una certa ora o in una certa parte della giornata[1]. Così, ad esempio, le donne non sono obbligate a indossare il Talleth[2] o a mettersi i Tefillìn[3], perché tali Mizvoth vanno eseguite solo nelle ore diurne e non in quelle notturne – ma naturalmente non ci sarebbe niente male se una donna volesse mettersi il Talleth o i Tefillìn[4]; unica limitazione sarebbe che abbigliandosi in tal modo non volesse farsi passare o potesse esser scambiata per un uomo, ché in questo caso si contravverrebbe al divieto di indossare abiti caratteristici dell’altro sesso per farsi credere diversi da quello che si è[5]. Analogamente la donna non è tenuta ad ascoltare il suono dello Shofar di Rosh ha-shanà perché anche questa Mizvà va compiuta esclusivamente nelle ore diurne[6], ma, come è noto, è usanza generalmente diffusa che anche le donne facciano tutto il possibile per presenziare alla Tefillà di Rosh Ha-shanà ed ascoltare come gli uomini il suono dello Shofar; per lo stesso motivo le donne non sono tenute a prendere il Lulav nei giorni di Sukkoth[7], per quanto sia uso assai diffuso che anche esse recitino la benedizione relativa ed agitino le « quattro specie » come fanno gli uomini[8].
E invece evidente che le donne siano in colpa nella stessa misura degli uomini se, per esempio, tanto per restare in campo liturgico, pregano davanti ad un’immagine, o in abito sconveniente, o introducono in casa oggetti o usanze estranee o contrarie all’Ebraismo, come potrebbe essere l’albero di Natale, o se danno un carattere di festività al 1° gennaio, vedendovi l’inizio di un anno che non ha per noi nessun significato: qui non solo si contravviene a disposizioni che hanno vigore in ogni momento della giornata, ma anche si tratta di infrazioni a divieti che, come abbiamo detto, vigono nella stessa misura per gli uomini e per le donne.
Vi sono però delle eccezioni nella dispensa delle donne da doveri da compiersi ad ore determinate, cioè in alcuni casi anche esse sono tenute a compiere Mizvoth che rientrano in quella categoria; sono anch’esse Mizvoth essenzialmente liturgiche ed esse sono: la partecipazione al Seder di Pesach[9], la lettura della Meghillà specialmente il giorno di Purim (quella serale è meno importante)[10], l’accensione dei lumi di Chanukkà[11], e tutte e tre vanno compiute in ore determinate della giornata: la prima nella prima parte della notte, la seconda durante le ore diurne, la terza nella serata, prima che cessi il movimento dalle strade; ma hanno tutte un elemento importantissimo in comune: tutte e tre celebrano liberazioni del popolo ebraico da persecuzioni e da pericoli gravissimi, ed uno dei tre episodi, quello di Purim, ebbe per principale protagonista una donna, Ester. Il valore educativo che ha il ricordare avvenimenti di tal genere è così importante che nessun membro del popolo ebraico può esser estraneo alla celebrazione di essi, anche se si tratta di quegli individui che, per motivi importantissimi, come vedremo, non sono tenuti a compiere doveri legati ad ore fisse.
Un’altra Mizvà che, senza dubbio, è legata ad un limite di tempo, ed anche piuttosto stretto, e da cui le donne non sono esentate, anzi sono particolarmente legate è quello dell’accensione dei lumi per il sabato e le feste[12]: le belle lampade ad olio, tradizionali da millenni e particolarmente belle e suggestive in Italia – adesso purtroppo sostituite in quasi tutte le case dai candelieri, per la supina acquiescenza a tutto ciò che viene dall’Europa orientale, dove il sego veniva usato dato che era quasi impossibile trovarvi l’olio, per quanto la tradizione stabilisca che i lumi festivi debbano essere ad olio, e solo in mancanza di esso si possa usare altro materiale per non restare al buio[13]. Ricordiamo pure che la funzione del lume sabatico e festivo non è di aggiungere un ornamento superfluo alla mensa, ma di dare luce, molta luce bella e pacata alle nostre sere festive; e quindi non due misere candeline dovremmo accendere, ma molti e molti lumi ad olio, in misura tale da non farci rimpiangere la fredda luce elettrica dei giorni feriali, a cui sarebbe molto meglio rinunciare. Ma non divaghiamo e torniamo a spiegare perché la Mizvà della lampada sia affidata alle donne: essa fa parte delle attività destinate ad assicurare il regolare andamento della casa, che, come vedremo, è considerato come Mizvà fondamentale della donna, e per di più essendo simbolo della pace che deve regnare in casa è particolarmente adatta alla dolcezza femminile che dovrebbe contraddistinguere tutte le nostre spose. D’altra parte, in assenza di una donna o quando la madre di famiglia ne sia impedita, la Mizvà deve essere eseguita da qualsiasi altra persona, uomo o donna che sia.
Esiste invece una Mizvà a cui le donne non sono tenute, per quanto sia uso comune che vi partecipino, ed è quella della Sukkà[14]: secondo la Torà e la tradizione, durante i sette giorni della festa si dovrebbe risiedere nella capanna, e compiervi tutte le nostre azioni, e principalmente mangiarvi e dormirvi[15]; è sì vero che, specialmente in questi climi, da secoli si è abbandonato l’uso di dormire in Sukkà, ma sta di fatto che la tradizione talmudica gli dà grande peso. Dato che le Sukkoth venivano spesso edificate in luoghi aperti, esposti agli sguardi ed al passaggio di chiunque, i Maestri trovarono che non si addicesse alla modestia delle donne ebree dormirvi, e quindi dispensarono le donne dal dovere della residenza in Sukkà, per quanto tale dovere non sia legato ad un momento determinato della giornata, ma invece si possa compiere in tutte le ore del giorno e della notte.
Il motivo per cui le donne sono esenti dalle Mizvoth che vanno compiute ad ore determinate è il seguente: la Torà dà immenso peso al compito della donna come regina della casa, come fulcro e centro delle attività domestiche che servono di base incrollabile alla felicità della famiglia, come prima educatrice dei suoi figli nella più tenera età; il valore che hanno tali attività è così alto, il loro intimo significato è così profondamente religioso, che chi è per natura destinata a dedicarsi ad esse non ha bisogno di compiere atti esteriori, pure comandati dalla Torà, che invece sono necessari per ricordare i doveri ebraici a chi dedica gran parte del suo tempo ad attività pure indispensabili ed indirettamente necessarie anch’esse all’esistenza della famiglia, ma meno sacre, come le attività agricole, commerciali, industriali ecc. Dato che l’essere il fulcro di una famiglia è considerato dalla nostra tradizione il compito principale della donna ebrea, la norma generale che le dispensa dall’esecuzione di certi doveri vale per tutte indistintamente, anche per quelle che per ragioni di età non sono ancora arrivate ad avere una famiglia loro e figli loro, o che ormai hanno superato l’età di educare i bambini, o che per qualsiasi altro motivo non hanno doveri famigliari.
Naturalmente non vi è nulla che impedisca che una donna adempia volontariamente a quelle Mizvoth che non le sono imposte dalla tradizione. Si porrebbe il problema se non si dovrebbe imporre tali doveri a quelle donne, oggi assai numerose, che non si dedicano più essenzialmente alla loro casa ed ai loro figli ed invece dedicano gran parte del loro tempo ad attività lucrative, o se, al limite, si dovrebbe considerare come trasgressione alla tradizione l’attività extradomestica della donna ebrea, ma tutto ciò ci porterebbe lontano dal nostro assunto e quindi non ne inizieremo la trattazione.
E cerchiamo invece di entrare nel vivo della questione della posizione della donna in campo liturgico.
Possiamo concludere, alla luce di quanto abbiamo esposto finora, che la nostra tradizione stabilisce due elementi, per cui la donna si differenzia dall’uomo in campo rituale e liturgico; da una parte il gran peso, la grande importanza ed il grande valore che si dà ai suoi compiti in seno alla famiglia, e d’altra parte il massimo rispetto per la sua modestia, base fondamentale dell’altissima moralità a cui deve informarsi l’ebreo in tutte le manifestazioni della sua vita. E proprio tenendo ben presenti questi due principi potremo comprendere le limitazioni alla partecipazione della donna ebrea alle manifestazioni liturgiche, limitazioni che, a prima vista, possono sembrare rivolte a metterla in una condizione di secondo piano e che invece sono essenzialmente destinate a valorizzarla ed a rispettarla.
Per ciò che riguarda la preghiera in genere, non vi è dubbio che la donna ha il diritto ed il dovere di esprimere i suoi sentimenti verso l’Essere supremo, ogni qual volta ne senta la necessità o ne possa trarre conforto: è questa la preghiera spontanea, la preghiera che viene dal cuore quando e come ci si sente di rivolgerla, preghiera che è quasi sempre qualcosa di intimo, di personale, priva di manifestazioni esterne, e che quindi non è sottoposta a regole, a formule, ma solo deve essere rivolta esclusivamente all’unico Dio invisibile ed incorporeo, ché altrimenti incorreremmo nelle colpe di politeismo e di idolatria. E forse non a caso, tra le poche preghiere di tal genere che la Bibbia ci conserva, hanno posto preminente quelle elevate da donne: da Debora dopo la sua vittoria sui Cananei e da Hanna dopo aver avuto il tanto agognato figlio[16], forse non a caso si ricorda che la preghiera di Rivkà, analoga ma separata da quella di Isacco, indusse Iddio a liberarli dalla sterilità che minacciava la loro famiglia[17], forse non a caso si racconta che, parallelamente alla cantica del mare intonata da Mosè e dagli altri uomini, anche le donne celebrarono dal canto loro, sotto la guida di Miriam, i prodigi divini sul Mar Rosso[18].
Ma passando alla Tefillà obbligatoria, a quella Tefillà che si recita nelle nostre sinagoghe, dobbiamo notare in primo luogo che da una notevole parte della liturgia le donne sono dispensate. Non mi soffermerò qui sulle molte parti della Tefillà che si suole recitare, in base spesso ad uso generale, nella Tefillà pubblica, o anche in quella privata, ma che non sono strettamente obbligatorie – e mi soffermerò invece essenzialmente sullo Scema’ e sulla ‘Amidà e sulla lettura del Sefer Torà, che, pur non facendo strettamente parte della liturgia, le è collegata indissolubilmente.
Le donne sono esenti del tutto dallo Scema’ perché va recitato due volte al giorno in parti determinate della giornata, cioè nel primo quarto del periodo diurno e nella prima metà del periodo notturno[19]; sono dispensate dalla lettura della Torà, in quanto essa ha luogo solo di giorno. Esse sono invece tenute alla recita dalla ‘Amidà[20]; sul motivo formale di questo obbligo si hanno idee diverse tra i talmudisti[21], ma quella più semplice e forse più logica è questa: dato che è sempre tempo di recitare una delle tre Tefilloth, non si tratta di una Mizvà strettamente legata ad una certa ora, e quindi le donne non ne sono dispensate, né hanno l’obbligo, stabilito dalla tradizione, di recitare quella della mattina prima che sia trascorso un terzo delle ore diurne; ma hanno l’obbligo di dire la Tefillà almeno una volta al giorno.
Lo scopo della Tefillà pubblica è che coloro che sono ad essa obbligati la recitino insieme, in quanto si pensa che la Tefillà recitata collettivamente abbia maggiore solennità e maggiore efficacia. Il compito del Chazzan è quello di guidare il pubblico e soprattutto di far uscire dall’obbligo della Tefillà chi non è in grado di recitarla da solo perché non è stato sufficientemente istruito e di adempiere a tale dovere in luogo di chi ne è impedito per malattia[22]. Principio fondamentale nella tradizione ebraica, e di logica evidente, è che chi non è tenuto a compiere un certo dovere non può, con la sua azione, far uscire d’obbligo chi a tale dovere è tenuto. Per questo motivo, per es., se un non ebreo compie la circoncisione di un bambino o macella un animale o lega gli Zizijoth ad un Talleth o scrive un Sefer Torà, anche se segue tutte le regole materiali relative a quell’atto, il bambino non viene considerato come circonciso[23], l’animale non è Kasher[24] e il Talleth[25] o il Sefer Torà[26] non sono usabili – non perché chi ha compiuto quelle azioni non sia degno di rispetto o di fiducia, ma semplicemente perché, non essendo esso tenuto alla disciplina di quegli atti, essi non ne hanno il valore religioso che hanno quando vengono eseguiti da chi ad essi è tenuto.
Per questo motivo quindi la donna, che non è obbligata alla Tefillà come sono obbligati ad essa gli uomini, non può avere funzioni di Chazzan, e se le adempisse non proscioglierebbe gli uomini dai loro doveri inerenti alla Tefillà e, analogamente, da quelli della lettura del Sefer – come non potrebbe farli uscire dall’obbligo di sentire il suono dello Sciofar, e come un bambino circonciso da una donna non verrebbe considerato tale, in quanto la donna, per ovvi motivi fisici, non è sottoposta alla Mizvà della Milà[27].
Analogamente, in una sinagoga non può essere un coro di donne; nelle parti della Tefillà che, per tradizione generale o locale, vengono cantate coralmente, l’insieme delle voci sostituisce quella del Chazzan, e per il motivo suddetto se le voci sono femminili non adempiono alla loro funzione.
Naturalmente a questo punto si potrebbe obiettare che le parti che non sono strettamente obbligatorie (come la levata di Sefer, per es.) potrebbero esser cantate anche da donne, e lo stesso potrebbe esser recitata da una donna la Meghillà di Ester, che è obbligatoria per tutti, come abbiamo detto. E quindi, appunto molte parti cantate, che non fanno parte della Tefillà obbligatoria, potrebbero essere affidate a cori femminili, che hanno indubbi pregi artistici e danno un tono particolare di dolcezza e di sentimentalismo.
Ed il ragionamento non farebbe una grinza, se non ci fosse anche un altro elemento, a cui pure abbiamo accennato prima. Il canto femminile, come ogni altro vezzo della donna, può indurre chi lo ascolta a pensieri lascivi, o comunque distrarre da quella serietà e da quella concentrazione che debbono sempre esser perseguite da chi si dedica alla Tefillà e che si trova nel Beth Ha-Keneseth[28]. Noi non sappiamo più giungere all’alto livello di antichi Maestri, che prima di iniziare le loro preghiere attendevano un’ora intera[29], per allontanare il loro pensiero da ogni argomento non solo frivolo ma anche attinente in qualsiasi modo alle realtà della vita quotidiana e concentrarsi solo nel pensiero della potenza e della bontà divina. Ma il tener lontano da noi qualsiasi elemento che, durante la Tefìllà possa distrarci da essa, è cosa di capitale importanza e quindi è comprensibile l’avversione di tutta la tradizione ebraica ad ogni partecipazione della voce femminile alle funzioni sacre. Dico di tutta la tradizione, perché infatti anche nei tempi più antichi era così: ho ricordato come risulti chiaramente dalla Bibbia che Miriam e le altre donne inneggiarono al passaggio del Mar Rosso separatamente dagli uomini; si può aggiungere che in tutto il culto del Santuario, in cui la musica ed il canto avevano parte importantissima, non vi è traccia di cori o di «a solo» femminili, ma tutte queste funzioni venivano adempiute dai soli uomini leviti.
Negli ultimi tempi, poi, la avversione al coro femminile trova anche un altro motivo. Il coro femminile è caratteristica delle chiese cristiane, ed è stato introdotto, insieme ad altre innovazioni che ledono la pura tradizione ebraica, nelle così dette sinagoghe riformate, che, fonte specialmente nel secolo scorso in Germania, hanno adesso ripreso piede negli Stati Uniti ed in pochi altri Paesi. Orbene, il culto riformato non è un legittimo e naturale sviluppo delle tradizioni ebraiche, ma un’imitazione di quelle cristiane, una specie di sincretismo assimilato tra ciò che insegna la Torà e usanze ad essa contrarie; la conseguenza di quasi tutte le attività riformatrici è stata che i loro seguaci si sono in utima analisi staccati dall’Ebraismo. Quindi in ogni ambiente, e specialmente in quelli nostri dove tanto viva è la tendenza alla assimilazione nella vita dei singoli, dobbiamo fare ogni sforzo per opporci alle tendenze riformatrici, che in sostanza non sono se non un riconoscimento ufficiale all’assimilazione ed all’abbandono delle tradizioni ebraiche.
Sullo stesso piano va anche intesa la rigorosa separazione tra uomini e donne nei nostri luoghi di preghiera.
Dato che ognuno di noi – uomo o donna che sia – deve nella sinagoga dedicarsi esclusivamente alla meditazione religiosa, dobbiamo tenere lontana da noi ogni occasione di pensare ad altri argomenti. E chi di noi, anche se animati dalle più pure e oneste intenzioni, non può esser indotto dal contatto con persona dell’altro sesso a pensieri non adatti al luogo? Insisto sulle parole non adatti al luogo perché è ben noto che nell’Ebraismo non esiste l’orrore per la carne » ed i rapporti sessuali, a loro tempo e a loro luogo e disciplinati dalla Torà, non sono nulla di sconveniente o di brutto – ma sempre ogni cosa a suo luogo ed a suo tempo.
In ogni caso, anche la donna ha un suo vasto campo di azione nella liturgia, oltre al primo dovere, naturalmente, di rivolgersi essa stessa al Creatore per lodarLo, per chiederGli di esaudirla nelle sue giuste richieste, per ringraziarlo dei benefici concessi. Prima di tutto, istradare i propri figli all’abitudine della Tefillà, dal Modè Anì e dallo Shema’ Israel fin da quando balbettano le prime parole e via in parallelo al loro sviluppo intellettuale.
L’occuparsi degli arredi sacri, specialmente quando richiedono la mano femminile per delicati lavori di ricamo o di restauro, è stato sempre considerato azione di gran merito per la donna ebrea, tanto che in un’antica formula, purtroppo conservata ora solo nel rito italiano, ogni sabato si benedicono in pubblico in modo particolare le donne che a questa mansione volontariamente si sobbarcano[30]. La soddisfazione di far qualcosa per il Sefer Torà viene concessa dando loro l’incarico delicato di avvolgere con quella precisione e pazienza che sono loro caratteristiche la fascia che circonda la pergamena del Sefer Torà. E poi sottinteso che le donne possono unire la loro voce a quello degli altri oranti, in modo da non sopraffarla, in tutte le parti della Tefillà in cui il pubblico risponde al Chazzan e canta dei brani.
E si può dire insito nella natura femminile compiere azioni non appariscenti, pervase di dolcezza e di mitezza, ma non per questo meno necessario di quelle più rumorose o più visibili che piacciono agli uomini. Parafrasando un’espressione dei Salmi, «kol kevuddah… penima»[31] i nostri Maestri accentuarono appunto che tutto ciò che dà onore, soddisfazione e prestigio alla donna è qualcosa di intimo, di interno, di non spettacolare. Ed è quindi anche logico che si lasci agli uomini di aver i compiti più visibili nel Beth Ha-Keneseth, che si senta soprattutto la loro voce; le donne, accompagnandoli con la loro voce più sommessa e delicata, più intima direi, potranno e dovranno sentire la massima delle soddisfazioni pensando: «Se questi uomini possono con tanta passione ed a voce spiegata celebrare il Signore lo debbono in gran parte a noi, loro madri, che abbiamo saputo inculcare loro i principi perché a ciò arrivassero»; e come nella casa, nella famiglia, la diuturna, costante, paziente e poco appariscente opera della donna è in realtà quella che tiene su tutto, che coltiva e mantiene gli affetti famigliari, che assicura la saldezza dei legami tra genitori e figli e fratelli, e molto minore importanza ha quella più tangibile ed appariscente dell’uomo, lo stesso avviene o deve avvenire nel Beth Ha-Keneseth: l’attività continua, paziente e piena di amore delle donne è quella che dà il modo a questo istituto ebraico di mantenersi e di perpetuarsi, anche se la parte appariscente viene lasciata agli uomini; si contentino quindi le donne del loro compito basilare e consono alla loro natura, e non aspirino a mettersi in mostra come coriste o come soliste!
M. E. ARTOM
(*) Il testo di una conferenza che il Consulente Rabbinico di Venezia ha tenuto all’ADEI di tale città il 14 novembre 1973. Siamo grati all’Ecc.mo Dott. Artom che ha voluto destinarlo alla nostra rivista.
[1] V. p. es. Shulchan ‘Aruk, Orach Chajim, XVII, 2.
[2] Ivi, 1 c.
[3] Ivi, XXXVIII, 3.
[4] Però alcuni ritualisti vi si oppongono; v. ivi, 1. c., haggahà.
[5] DEUTERONOMIO XXII, 5.
[6] Shulchan ‘Arukh, Orach Chajim, DLXXXIX, 3, 5.
[7] Ivi DCLII, 1; DCLXVIII, 9, haggahà.
[8] V. haggahà citata nella nota 7.
[9] Ivi, CDLXXII, 14.
[10] Ivi, DCLXXXIX, 1.
[11] Ivi, DCLXXV, 3.
[12] Ivi, CCLXIII, 5.
[13] Ivi, CCLXIV, 3-6.
[14] Ivi, DCXL, 1.
[15] Ivi, DCXXXIX, 1.
[16] 1 SAMUELE II, 1-10.
[17] GENESI XXV, 21 e R.S.I. a. 1.
[18] Esodo XV, 20-21.
[19] Shulchan ‘Arukh, Orach Chajim, LXX, 1.
[20] Ivi, CVI, 1.
[21] Talmud Bavli, Berakhoth 20 e passi paralleli nel Talmud Jerushalmì.
[22] Shulchan ‘Arukh, Orach Chajim, CXXIV, 1.
[23] Shulchan ‘Arukh, Jorè De’à, CCLXIV, 1.
[24] Ivi, II, 1.
[25] Shulchan ‘Arukh, Orach Chajim, XIV, 1.
[26] Shulchan ‘Arukh, Jorè De’à, CCLXXXI, 1.
[27] Però alcuni ritualisti ritengono valida la circoncisione eseguita ivi, CCLXIV, 1.
[28] Shulchan ‘Arukh, Orach Chajim, LXXV, 3.
[29] Talmud Bavli, Berakhoth 30.
[30] Si tratta della formula «Mi she-bberakh immothenu» ecc., stampata generalmente nei formulari di rito italiano alla fine di Shachrith del sabato.
[31] Salmi XLV, 14.