Parashat Chayè Sarà ci porta davanti a una delle scene più delicate e profonde della Torah: Eliezer, il servo fedele di Avraham, chiede ad Hashem un segno preciso per riconoscere la donna destinata ad Yitzchak. E succede subito: “E avvenne, prima ancora che avesse finito di parlare…”. Rivkà arriva al pozzo, compie esattamente il segno richiesto: è della famiglia giusta, con la bontà perfetta. Eppure, la Torah dice che Eliezer rimase in silenzio, titubante: “L’uomo, nel frattempo, la guardava, chiedendosi in silenzio se Hashem avesse fatto sì che la sua missione avesse avuto successo o meno”. Un miracolo luminoso e lui ancora dubita. Perché? Perché tra ciò che l’occhio vede e ciò che il cuore accetta c’è lo spazio vulnerabile dell’umano.
Rabbi Nachman insegna nel Likutey Moharan che bisogna “legarsi alla sapienza che si nasconde in ogni cosa”. Il mondo è un grande midrash vivente, ogni incontro un messaggio, ogni volto un maestro segreto. Hashem è chiamato “Alufò shel Olam”, il Maestro-Nascosto del mondo, Colui che parla attraverso ciò che sembra caso. Eppure noi, come Eliezer, chiediamo conferme anche quando le evidenze sono davanti ai nostri occhi. In realtà, il mistero dell’apparente incredulità viene affrontato dal Midrash, il quale svela il nodo nascosto: Eliezer desiderava che Yitzchak sposasse sua figlia. Un desiderio umano, comprensibile, ma pur sempre un interesse personale. Ed è qui che si capisce la sua esitazione. Non è un dubbio sulla bontà di Hashem, è un dubbio creato dall’ego. Quando l’interesse personale si infila nella spiritualità, anche il miracolo diventa ambiguo. La preghiera può diventare un modo per cercare conferme, non verità. È la trappola più sottile: usare il linguaggio della fede come atto manipolativo per sostenere ciò che conviene a noi. A tutto ciò si oppone la figura di Moshe Rabbenu, che nel momento più buio della storia spirituale di Israele dice: “Cancellami dal Tuo libro, ma salva il popolo”. Moshe non vuole un ruolo, non vuole un titolo, non vuole lasciare un nome; vuole soltanto il bene degli altri. La sua infinita grandezza è l’assenza totale di interesse personale. L’atto di Moshe è la cura dell’inquinamento spirituale: la capacità di fare spazio all’altro (Klal Yisrael) per fare spazio a D-o. Per Moshe, il bene del popolo è il suo bene.
E ancora più indietro c’è Adam HaRishon. I Maestri ci insegnano che tutte le anime erano contenute in lui: l’“Io” e il “Noi” erano una cosa sola. Non c’era competizione né separazione ma solo integrazione e collaborazione come gli organi equilibrati di uno stesso apparato. Il peccato introdusse la frattura, l’ego, l’IO che oscura lo sguardo. Da allora vedere chiaramente la volontà di Hashem è difficile, non perché Dio sia distante, ma perché noi siamo divisi dentro. Per questo venne introiettata l’essenza dell’albero della Conoscenza-Daat. La “conoscenza”, nella Torah significa anche “unione”, come quando si dice: “E Adamo conobbe Eva”. Daat è integrazione, unire il dentro e il fuori, l’io e l’altro. Mangiare dall’albero significò acquisire la capacità di integrare dentro di sé il potenziale che si dovrebbe esperire nella società: una forza potentissima, che può portare all’unione con il prossimo e con Hashem… o all’unione e integrazione con il proprio o i propri “Ego” (vedi la psicosintesi di assagioli).
Il messaggio è limpido: viviamo in un mondo pieno della Presenza Divina, pieno di segni e di messaggi, ma basta un frammento di interesse personale per distorcere tutto. Non è sempre facile distinguere se ciò che sentiamo venga da D-o… oppure dal D’io, dal nostro ego travestito da ispirazione. Non a caso in ebraico, le stesse lettere che formanoאֵין (Ein, l’Infinito, l’Ein Sof, Hashem) possono essere manipolate e invertite, formando אֲנִי(Ani, “io”). È la nostra eterna scelta: vivere nell’annullamento e nella luce dell’Ein Sof, o nella prigione dell’Ani. Rispetto a ciò, i modelli dei personaggi della Torà ci offrono visioni educative: Eliezer ci mostra come l’ego spirituale offusca la visione; Moshe ci mostra come l’umiltà la purifica; Adam ci ricorda che eravamo un’unica anima, che il bene dell’altro è il nostro bene; Rabbi Nachman ci insegna a legarci alla Chochmah che Hashem ha nascosto in ogni cosa.
Che ognuno di noi possa avere occhi limpidi per vedere i miracoli quotidiani, un cuore onesto per riconoscere quando l’ego entra in scena, e la forza di seguire la via di Moshe: fare spazio all’altro per fare spazio a Dio. Che l’Alufò shel Olam continui a parlarci attraverso le nostre giornate e i visi che incontriamo. Che possiamo imparare a riconoscerLo nei magnifici miracoli del quotidiano; nello stra-ordinario dell’ordinario.
Shabbat Shalom
