In Parashat Toledot la sterilità di Yitzchak e Rivka aleggia come una terra dura e arida. La Torah non usa il consueto vayitpalel — pregò — ma un verbo sorprendente e quasi provocante: Vayetar. La radice, ע–ת–ר, richiama il forcone, l’aratro che incide il terreno, che affonda e rivolta la zolla, che apre solchi profondi. Vayetar non è la preghiera quieta, ma la preghiera che spinge, insiste, bussa con forza alla porta del decreto. Rashi lo interpreta come “pregò con moltissima insistenza”. Il quadro è potente: Yitzchak che prega come un contadino che non si arrende davanti a una terra ostinata; la preghiera come aratura, tentativo di rovesciare ciò che sembra stabilito, lavoro duro che vuole aprire spiragli nel cielo.
La Mishnà, non a caso, ci regala una visione sulla sua architettura: inizia con l’ordine di Zeraim, “semi”, lo stesso ordine in cui la prima masechet è Berachot. È un insegnamento nascosto: se vuoi vedere le berachot, devi prima seminare, e per seminare devi scavare. È lo stesso messaggio della Bet di Bereshit — inizio — e della Bet di Berachà — benedizione: la Torah scritta e la Torah orale inaugurano la loro storia con la stessa lettera, lo stesso tema. La benedizione non nasce automaticamente dal cielo; nasce dalla zappa dell’uomo che insiste. Toledot, “generazioni”, si lega così a Zeraim, “semi”, e all’aratura che precede entrambi. Prima di avere figli, prima di vedere una realtà diversa, Yitzchak e Rivka devono incidere il proprio destino con la loro voce. Vayetar diventa allora la tefillà che tenta di cambiare il decreto: non introversione, ma pressione; non meditazione, ma forza. Una tefillà che vuole spostare, mutare, provocare una risposta dall’Alto.
Da qui, però, entra in scena la profondità critica del Mekor Chayim. Egli avverte: “Attenzione: pensare di cambiare D-o è vicino all’eresia”. È concettualmente irriverente immaginare la tefillà come uno strumento capace di mutare la volontà Divina. Il profeta l’aveva detto chiaramente: “Io, Hashem, non cambio”. Il mutamento nella volontà Divina implicherebbe imperfezione: se Dio “cambia idea”, allora non era perfetta la Sua conoscenza precedente — e soprattutto: chi sarebbe l’uomo per correggerLo? E allora, come può Yitzchak “forzare” il decreto? Come può la ripetizione della parola contendere con l’Eterno, come un uomo che ottiene un favore bussando con insistenza? Tentiamo una risposta. La radice ע–ת–ר significa anche ricchezza, abbondanza. Vayetar quindi non descrive l’atto di spostare Dio, ma quello di trasformare l’uomo: un accumulo di profondità interiore, una crescita dell’anima attraverso cui l’essere umano diventa capace di ricevere ciò che prima non poteva contenere. Non è Dio che cambia — siamo noi che diventiamo diversi.
La tradizione è sorprendentemente coerente: la tefillà non altera la realtà superiore ma ordina la nostra interiorità, collocando la persona nella posizione corretta per ricevere. È un riallineamento dell’anima alla luce superiore, non una negoziazione con il cielo. D-o non muta; l’uomo si modella. Non a caso Essere umano Adam non si chiama così proprio dalla parola adamà-terra? Così, quando il Midrash afferma che i Patriarchi erano sterili affinché pregassero, non significa che Hashem avesse bisogno delle loro lacrime per piegarsi. Significa che i Patriarchi stessi avevano bisogno delle proprie lacrime per diventare strumenti adatti a generare Israele. Una nascita del corpo non può precedere la nascita dell’anima. Solo quando Yitzchak e Rivka diventano “ricchi”, vayitar, nel senso profondo di una struttura interiore più ampia, il figlio può arrivare. Prima mancava il recipiente. Per questo il Talmud definisce la tefillà avodà shebalev, “il lavoro del cuore”: non informazione che sale, ma cuore che si scolpisce. Allora vayetar significa entrambe le cose: insistenza e arricchimento. L’insistenza non serve a “forzare” D-o, ma a forzare noi stessi a diventare più veri. Il decreto, dunque, non cambia, ma l’uomo si – e in quel cambiamento trova un sentiero nuovo attraverso cui lo stesso decreto eterno si manifesta in modo diverso. La sorgente non varia, è il recipiente che si amplia.Ma come avviene questa trasformazione? Come fa la tefillà a cambiare l’uomo invece che D-o? La risposta è halachica, non mistica. Lo Shulchan Aruch ordina: “Yechaven et libò” — metta intenzione nel significato delle parole. Non è un dettaglio tecnico: è la mappa del cambiamento. Ripetere ogni giorno le stesse parole penetrandone il senso non può non trasformarti.
La Halachà aggiunge un’altra dimensione sorprendente: l’Amidà va recitata sottovoce, come Channa, la madre sterile che genera Shmuel (mi ha ascoltato D-o): “la sua voce non si sentiva”. Ma i Chachamim precisano: tu devi sentirla. Perché? Perché la preghiera non è fatta per salire verso l’alto, ma per penetrare verso l’interno. È la voce che bussa alla porta del tuo cuore prima ancora che a quella del cielo. Mi sembra che la Chassidut chiami questo viaggio la ricerca dell’“ani betoch ani”, il “me stesso dentro me stesso”, l’io dentro l’io, quello più profondo, finché l’“ani” diventa Ain, il “nulla” dell’ego, che allude all’Ein Sof, infinito Divino. La tefillà è l’aratro che scende strato dopo strato, finché l’io incontra il Divino. La voce non deve farsi sentire fuori, ma dentro. Ora la tensione si scioglie: se D-o non cambia, allora la tefillà non serve a spostare la volontà Divina, ma a spostare l’uomo nel punto in cui quella volontà può finalmente rivelarsi.
Shabbat Shalom
