“Hayipalé meHashem Davar?” – C’è forse qualcosa di troppo difficile per il Signore? Questa domanda, rivolta a Sara quando rise nel cuore sentendo la promessa di una maternità impossibile, è il battito profondo di Parashat Vayerà: l’incontro fra il limite umano e l’Infinito Divino. Sara ride nel suo cuore perché la mente umana fatica a concepire un miracolo quando la natura dice il contrario. È il riso interiore di ogni uomo davanti a un sogno che sembra irrealizzabile, alla guarigione improbabile, alla speranza logorata dal tempo. Questo riso è l’espressione di un conflitto interno tra il fatto biologico e la promessa Divina. Psicologicamente, rappresenta il momento in cui la nostra mente razionale (guidata dall’esperienza e dalle leggi di natura) si scontra con la possibilità del “sovra-naturale”, uno scetticismo auto-imposto, che limita il nostro potenziale e le nostre aspettative di cambiamento.
Noi, esseri di tempo e spazio, siamo strutturati per percepire confini: il confine del giorno, il confine del corpo, il confine del possibile. Quando la mente razionale di Sara si scontra con la promessa Divina, essa reagisce con il riso, la più naturale delle espressioni di incredulità di fronte a ciò che appare impossibile secondo le leggi di questo mondo. Il problema qui non diventa solo umano ma si estende verso il Divino: D-o, Colui che è chiamato Ein Sof – Senza Fine, Senza Limite – esiste al di là di ogni confine. L’infinito non può essere contenuto nel finito. Tentare di imprigionare il Potere Divino entro le dinamiche della natura che Egli stesso ha creato (salute, parnassah, figli, zivvug, leggi fisiche) è, a livello spirituale e psicologico, una forma sottile di Avodà Zarah (idolatria). Si crea, in sostanza, un idolo mentale: un “dio” che può fare solo fino a qui, un’entità prevedibile, circoscritta. L’appellativo “Ein Sof” rappresenta l’assoluta illimitatezza, al di là di ogni concetto e percezione umana. Limitare la Sua capacità è negare la Sua essenza.
La vera Emunah (fede) è l’annullamento del nostro limite mentale di fronte al Suo Infinito. È riconoscere che al Hayipalé meHashem Davar? Si risponde con un assoluto “No”. La domanda a questo punto è: come noi ci relazioniamo a Lui sapendo chi è?”. Immaginiamo di avere come amico personale il leader più potente del mondo, colui che ha in mano risorse illimitate e influenza su ogni aspetto della vita. Se questo amico ci dicesse: “Puoi chiamarmi in ogni istante, per qualsiasi problema, grande o piccolo, senza appuntamento, e io sarò lì,” non useremmo forse questa opportunità con assoluta costanza?
Il Dialogo Quotidiano: Questa è la realtà del nostro rapporto con HaKadosh Baruch Hu.
E’ scritto nei salmi:“Emanti ki Adaber”, Ho creduto perché parlerò, ma non solo Emunà-Fiducia data dalla parola, ma anche realizzazione concreta: la parola Emunà ha la sua radice nella parola “Amen-così sia”, quindi “ho creduto perché ho parlato” ma anche, “ho realizzato perché ho parlato”.
La Halachà ci insegna la Tefillah (preghiera) tre volte al giorno come meccanismo strutturato per stabilire un dialogo quotidiano, continuo con Hashem. Ma come spiega il Rambam, anticamente la preghiera non era strutturata, ognuno parlava con Hashem in base alle sue volontà e possibilità. Poi si è perso l’uso del dialogo spontaneo e si è dovuti ricorrere al formulario, ma l’antica preghiera era quella di aprire noi stessi e invocare dal profondo del cuore: Hashem voglio essere con Te! Sembra strano, a volte difficile, ma, in fondo, non lo è: sembra come parlare con un Amico che ti conosce da sempre, con un Padre che non aspetta le parole giuste ma la tua voce. È dire: “Non ce la faccio da solo, aiutami Tu”, o semplicemente: “Volevo sentirTi”. È come un figlio che chiama il genitore solo per nostalgia, o come un genitore che trova una scusa per chiedere qualcosa ma, in verità, vuole solo sentire la voce dall’altra parte della linea.
Così è la conversazione con Hashem: un filo invisibile che unisce due cuori che si cercano, e che si riconoscono. Così dice lo Shulchan Aruch: “Shivviti Hashem Leneghdì tamid”, “Ho posto sempre Hashem davanti a me”, siamo sempre insieme. Ogni volta che ci sentiamo bloccati, che il nostro problema ci sembra “troppo grande” o la nostra meta “troppo lontana,” dobbiamo risvegliare nel cuore il ricordo dell’Ein Sof. I maestri ci esortano a non dire ad Hashem quanto sono grandi i nostri problemi ma a dire ai nostri problemi quanto è grande Hashem. La crescita personale in questa Parashà è imparare a disattivare il “riso interiore” che limita le nostre aspettative. Non ridiamo noi… lasciamo “ridere Hashem”! Come dice un detto popolare: quando l’uomo dispone i suoi programmi, “Hashem ride”. Non per disfare i nostri piani, ma per dirci, come Disse a Moshè: “Rav Lach”, da non leggere come: “ora basta”, ma come: “c’è molto di più per te!”; non credere di volerti più bene di quanto te ne voglia Hashem, perché Lui pensa più in grande di te. Tutto questo significa abbandonare il confine mentale che abbiamo eretto attorno al Suo Potere e abbracciare una vita di Bitachon-Sicurezza Illimitata, sapendo che il nostro Amico, il Creatore, è sempre raggiungibile e il Suo Potere è sempre presente.
Shabbat Shalom
