Siamo tutti cresciuti credendo nell’importanza del progresso. Negli ultimi secoli, l’obiettivo della filosofia, della religione, della cultura e, certamente, della scienza è stato quello di sviluppare idee e pratiche che facessero progredire l’umanità oltre il suo stato attuale. Anche i poeti hanno celebrato la superiorità del progresso al punto da considerarlo il segno distintivo dell’umanità, ciò che la distingue dal mondo animale e lo supera, persino in alcuni casi quello che distingue l’umanità dall’Onnipotente stesso.
L’enfasi sul progresso è stata così forte che qualsiasi tentativo di tornare a idee e metodi del passato è quasi universalmente criticato come arretrato e primitivo e, come minimo, antiquato. L’opposto del progresso è sintetizzato nella parola regresso, una parola con forti connotazioni negative. Nessuno al mondo vuole essere visto come un regressivo.
In questo periodo dell’anno, poco prima del giorno di Rosh haShanà, il Capodanno ebraico, il tema del progresso è decisamente nell’aria. Tutti speriamo di progredire verso un anno migliore, un anno di crescita e sviluppo personale e collettivo. In molti siddurim, anche di riti differenti, il concetto è racchiuso nella tefillà in cui tutti ci auguriamo, a conclusione dell’anno vecchio e come speranza per l’anno nuovo che inizia in quelle stesse ore: “Che quest’anno e le sue maledizioni se ne vadano, e che un nuovo anno con le sue benedizioni abbia inizio!”.
Nessuno sembra desiderare fino in fondo che l’anno a venire sia un anno in cui si mantenga lo status quo. Certamente, pochissimi sperano realmente in un ritorno al passato.
Eppure, è proprio il concetto di “ritorno” quello che la nostra Torà sembra insegnarci ed augurarsi per tutti noi, soprattutto in questo periodo dell’anno.
La Parashà di questa settimana, Parashat Nitzavim, contiene il seguente versetto (Devarim 30:1-10). Per comprendere il concetto alcuni termini verranno tradotti in accordo con la loro radice ebraica:
“Quando tutte queste cose ti accadranno – la benedizione e la maledizione… E le prenderai a cuore [letteralmente, e le riporterai al tuo cuore]… E tornerai al Signore tuo D-o, e tu e i tuoi figli obbedirete al Suo comando… Allora il Signore tuo D-o ti farà tornare dalla tua prigionia… Ti farà tornare da tutte le nazioni… Tornerai e di nuovo darai ascolto alla voce del Signore… Perché il Signore tornerà per gioire del tuo benessere… Una volta che sarai tornato al Signore tuo D-o con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima.”
Nello spazio di pochi versetti, la parola “ritorno” compare, in una forma o nell’altra, almeno sette volte. Dato che, come insegnano i Chachamim, nella Torà nessuna parola è ridondante o inutile, questa ripetizione va capita perché sicuramente ha un significato ed è necessaria a trasmettere un insegnamento. Come scrive Nechama Leibowitz, confermando di fatto quanto detto precedentemente, in questo caso dobbiamo pensare al termine ripetuto come come ad un “leitvort”, una parola guida, una parola che ci fornisce un indizio e ci conduce al significato più profondo del testo in questione. Anche a chi è totalmente digiuno della lingua tedesca, difficilmente sfuggirà il paragone tra il termine usato da Nechama Leibowitz, “leitvort”, una parola che identifica il tema di un intero brano, e la parola “leitmotiv”, che è un pensiero o una melodia che pervade e che si ripete in un’opera letteraria o in una composizione musicale. I dieci giorni che iniziano con Rosh haShanà e si concludono con Yom Kippur sono noti come Aseret Yemé Teshuvà, termine che di solito viene tradotto come “I Dieci Giorni del Pentimento”. La parola teshuvà, tuttavia, non significa, presa letteralmente, realmente pentimento, e certamente non significa penitenza, come viene spesso reso. Piuttosto, significa ritorno. Il leitmotiv di questo periodo è l’invito della Torà a impegnarci in una profonda introspezione e a tornare a un luogo, ad un momento, ad una situazione che abbiamo perso, dimenticato o abbandonato. Quello che ci viene richiesto sembra non essere. stranamente, un progresso. Ad una prima occhiata superficiale, quanto auspicato sembra essere un regresso.
Ci si può legittimamente chiedere: ritorno a cosa? Per fornire una qualche risposta a questa domanda, possiamo trarre ispirazione da un libro molto significativo, soprattutto forse in questo periodo dell’anno. Si tratta di “Le Luci della Teshuvà”, di Rav Kook. Rav Kook sottolinea che, nel corso del tempo, ognuno di noi si sviluppa come individuo e, in questo processo, spesso si isola e si aliena dagli altri, dalle proprie famiglie, dal popolo di Israele. Ritornare significa tornare dal nostro egocentrismo alla collettività, dal “prat”, o singola unità, al “klal”, o gruppo onnicomprensivo. Non può esserci una vera teshuvà se la persona non si riconnette con componenti più ampie della società. Tutti noi, nel profondo del nostro cuore, sappiamo in che modo ci siamo separati dalle persone significative della nostra vita, e ognuno di noi sa come riconnettersi con queste stesse persone. Nella vita di ciascuno di noi esiste una destinazione alla quale varrebbe la pena tornare, almeno ogni tanto: la nostra giovinezza. Man mano che maturiamo e ci sviluppiamo nella vita e nel nostro essere, cresciamo in molte direzioni positive. Nel nostro crescere, però, ci allontaniamo anche dalla nostra innocenza, dal nostro entusiasmo giovanile, dalla speranza e dal senso di potenziale di sviluppo che caratterizzano i giovani, ma che gli individui più anziani rifuggono spesso cinicamente, disillusi dalle esperienze vissute nella loro vita sulla loro pelle. Molte persone possono trovare molto gratificante, anche solo con l’immaginazione, tornare alla propria giovinezza e riconquistare parte di ciò che erano le qualità positive che hanno lasciato dietro di sé mentre facevano le scelte che li hanno aiutati a crescere e a diventare adulti.
Il ritorno auspicato dalla Torà è un ritorno da effettuare su piani diversi: è il ritorno all’Onnipotente, alla Sua Torà. Non importa quanto intensa sia stata la nostra adesione alle Sue mitzvot durante l’anno appena trascorso, possiamo tornare a Lui per stabilire un legame ancora più forte. Non importa quanto attentamente abbiamo studiato la Sua Torà, possiamo tornare e raggiungere livelli ancora più profondi della sua impenetrabile profondità.
Questo è importante per il rapporto “ben adam laMakom”, tra l’uomo e D-o. Per quanto concerne il rapporto “ben adam lachaverò”, tra uomo e uomo, non importa quale sia stata la nostra relazione con gli altri nella nostra vita, nel nostro passato recente o meno recente. Abbiamo sempre la possibilità di attingere alle nostre fonti interiori di generosità e compassione e migliorare quelle relazioni in uno spirito di autentica teshuvà, di ritorno agli altri e, nel processo, al nostro io più vero.
Presa in questo senso la teshuvà è tutt’altro di una regressione. Si tratta in effetti di ritrovare quella genuinità, quella forza, quella passione, quelle qualità innate che ognuno di noi possiede per iniziare un processo positivo, di vero progresso, personale e collettivo, che ci permetta di perseguire e di arrivare ad una società più giusta, equa, e caratterizzata da comportamenti positivi degni di essere emulati.