“Se sorge una lite fra uomini e si presentano in tribunale, i giudici li giudicheranno, assolvendo l’innocente e condannando il colpevole. Quindi se il colpevole merita di esser battuto, il giudice lo farà stendere per terra e lo farà battere in sua presenza, con un numero di colpi, secondo la gravità della sua colpa. Può fargli dare quaranta colpi, ma non di più, perché, oltrepassando ciò e battendolo con un numero maggiore di colpi, tuo fratello non sia disprezzato ai tuoi occhi” (Deuteronomio 25:1-4). La Torah, in questi versi, parla del “Malkut” una punizione corporale che veniva inflitta a coloro che erano ritenuti colpevoli di inconfutabili trasgressioni.La Torah afferma esplicitamente che un individuo meritevole di questa punizione riceve quaranta frustate, “Arbaim yakenu lo yosif / quaranta colpi ma non di più” (25:3).
I Saggi, tuttavia, hanno poi spiegato che l’intento della Torah era che il peccatore doveva ricevere trentanove colpi e non quaranta. Il Talmud (Makkot 22b) ha dedotto questa riduzione dall’accostamento tra il versetto 3 e quello precedente, che si conclude con le parole “bemispar” (letteralmente “nel numero”). Questa parola, insieme alle parole iniziali del verso 4, forma l’espressione “bemispar arbaim yakenu” che può essere letta come “lo colpirà nel numero entro quaranta”, cioè trentanove volte.
Ma perché la Torah non ha scritto direttamente che il peccatore deve ricevere trentanove colpi? Perché ha formulato questa norma e scritto chiaramente che si devono dare quaranta colpi per poi, attraverso una sottile allusione, affermare che i colpi sono trentanove?
Una risposta a questa domanda è stata data dal Maharal di Praga (Rabbì Judah Loew ben Bezalel 1520 ca. – 1609), nel suo noto commento a Rash”y (1040-1105). Il Maharal spiega che sarebbe appropriato per un peccatore ricevere quaranta colpi, perché la trasgressione contamina l’essere della persona che si è formata in quaranta giorni.
Nel Talmud si insegna che Il feto prende forma durante i quaranta giorni successivi al concepimento. Quindi, il numero dei colpi del Malkut, sarebbero associati alla creazione dell’essere umano e poiché il peccato mina lo scopo stesso della nostra creazione, un peccatore deve ricevere un colpo per ogni giorno della sua formazione.
Tuttavia, scrive il Maharal, l’essenza di una persona è composta da due elementi: il corpo e l’anima. Le proprietà fisiche di una persona prendono forma durante i trentanove giorni dopo il concepimento, mentre l’anima entra alla fine di questo processo, nel quarantesimo giorno.
Nelle benedizioni del mattino che recitiamo ogni giorno, proclamiamo che l’anima che il Signore ci ha dato è pura. Pertanto, anche se una persona commette i peccati più gravi, la sua anima rimane perfettamente pura. È il corpo che commette il peccato; l’anima è semplicemente un partecipante riluttante, per così dire, “trascinata” nell’atto del peccato a causa del suo essere legata insieme al corpo. Fondamentalmente, anche l’anima dovrebbe essere punita, a causa del suo coinvolgimento nel processo di illecito, soprattutto per non avere elevato il corpo materiale – schiavo delle passioni – al suo livello spirituale ben più elevato, non permettendo così la trasgressione.
Tuttavia, dopo che il peccatore ha ricevuto trentanove colpi, il suo intero essere fisico viene purificato. Questi trentanove colpi, espiano la contaminazione del suo corpo, quindi, non c’è più motivo per cui l’anima debba essere punita. L’anima avrebbe meritato la punizione solo a causa della sua associazione con il corpo che ha commesso l’atto illecito, ma una volta che il corpo è stato rinnovato attraverso trentanove colpi, non c’è più bisogno del quarantesimo.
Ecco perché, spiega il Maharal, la Torah scrive che il peccatore deve ricevere quaranta colpi, mentre in realtà ne riceve solo trentanove. In teoria, la Torah richiede quaranta colpi perché anche l’anima merita la punizione a causa della sua connessione con il corpo che ha commesso l’atto, ma in pratica, dopo trentanove colpi il corpo è purificato e non c’è più motivo di somministrare il quarantesimo che corrisponde all’anima che è già pura.
Questo precetto trasmette un messaggio fondamentale, grazie alla lettura data dal Maharal di Praga. Quando il trasgressore viene portato in tribunale per ricevere il giudizio e la conseguente punizione, gli viene mostrato che la sua anima rimane pura nonostante il suo errore. Lo scopo della punizione, secondo l’ottica della Torah, non è quello di demolire il peccatore ma, al contrario, motivarlo a crescere e cambiare. A tal fine, al trasgressore viene detto che non riceverà alcuna frustata corrispondente alla sua anima, perché non importa cosa abbia fatto di sbagliato, la sua anima rimane sacra e immacolata. Sapendo di possedere ancora un’anima pura, il peccatore sarà magari incoraggiato a cambiare e ad astenersi dal compiere azioni sbagliate in futuro.
Uno dei più grandi ostacoli al processo di ravvedimento del nostro cattivo operato, è la sensazione che sia troppo tardi, che siamo troppo contaminati, che siamo caduti troppo in basso per riprenderci. La Torah allora ci dice che c’è una parte di noi che non può mai essere corrotta. Dentro il nostro essere c’è una scintilla di bontà e santità che rimarrà sempre incontaminata e pura, indipendentemente dagli errori che abbiamo commesso. Se avremo fiducia nella nostra intrinseca scintilla divina, nell’elemento di Qedusha dentro ognuno di noi, non verrà mai meno la capacità di migliorare e ritornare fedelmente sulla via del Signore, Shabbat Shalom!