L’idea di escludere dalle competizioni sportive gli israeliani – proposta formulata da 44 deputati del Partito Democratico – non è nuova. Molto prima della guerra a Gaza, nel 2018, Liel Levitan aveva sette anni, capelli ricci biondi e a Cracovia era diventata campionessa europea di scacchi in ambito scolastico, ma venne bandita dai mondiali in Tunisia in quanto israeliana. Negli stessi mesi in Malesia gli israeliani vennero esclusi dai campionati mondiali paralimpici di tiro con l’arco; la competizione fu spostata nei Paesi Bassi.
Nel 2010 a Dubai la nuotatrice Amit Ivry poté gareggiare con bandiera e nome oscurati ai Mondiali di nuoto. Due anni prima, a Pechino, siccome la Cina non impediva l’ingresso agli israeliani, l’iraniano Mohammad Alirezaei rifiutò di entrare in piscina per non competere con l’israeliano Tom Be’eri. Il Comitato internazionale olimpico minacciò sanzioni per comportamento contrario allo spirito sportivo. Già nel 1958, su pressioni dei paesi arabi, Israele venne esclusa dai Giochi asiatici di Tokyo e nel 1974 venne espulsa dalla Confederazione calcistica asiatica. Eliminando le squadre israeliane si arriverebbe al paradosso di colpire il Bnei Sakhnin, squadra calcistica composta prevalentemente da giocatori arabi, vincitrice nella stagione 2003 2004 della coppa nazionale.
Verrebbe eliminata dai tornei anche Inter Campus, nata nel 2013 grazie alla nostra Inter, dove giocano insieme 290 bambini arabi, ebrei e figli di migranti distribuiti in varie città israeliane. Gli atleti sono stati e saranno – se la proposta del dovesse essere approvata – discriminati per il fatto di essere israeliani, non per le proprie opinioni (e peraltro da quando l’opinione dovrebbe essere un reato?) né tantomeno per le loro azioni. Da italiani è difficile non vedere in questa iniziativa l’eredità morale delle leggi razziali del 1938, dove gli ebrei vennero esclusi in quanto ebrei anche dallo sport. Tra i tanti, l’allenatore Arpad Weisz, vincitore di tre scudetti con Inter e Bologna.