“Tali sono i sacrifici che offrirete all’Eterno nelle vostre solennità…” (Numeri 29:39). Il brano della Torah di questo sabato (Numeri 25:10 – 30:1), quasi sempre, si legge il primo sabato del periodo noto come “Ben Hametzarim”, le tre settimane tra il 17 di Tamuz, il digiuno che commemora la breccia nelle mura di Gerusalemme da parte di Babilonesi, e il 9 di Av, ricorrenza in cui piangiamo la distruzione del Bet Hamiqdash, il Tempio di Gerusalemme.
I maestri, davanti a questa coincidenza, hanno provato a cercare una qualche connessione tra questo brano e il periodo di lutto che osserviamo per la perdita del Tempio e per il nostro esilio.
Un possibile punto di connessione proposto è quello che emerge da un concetto, oggetto di una discussione tra i maestri nel Talmud, riguardante le tre preghiere quotidiane.
Nel trattato di Berakhot (27b) si trova un dibattito tra i Tannaim (maestri della Mishnah) riguardo allo status della preghiera serale di Arvit, se sia da considerare obbligatoria o facoltativa. Secondo Rabbì Yehoshua “tefilat Arvit reshut / Arvit è facoltativa. Mentre la recitazione della preghiera mattutina Shachrit e di quella pomeridiana Mincha è un dovere obbligatorio assoluto, la recitazione della preghiera serale Arvit, non lo è. La regola stabilita, poi, seguirà in linea di principio questa opinione sebbene, nella pratica, pratica il popolo ebraico abbia accettato la preghiera serale Arvit come un obbligo.
Ma qual è la differenza tra la preghiera serale Arvit e le altre due preghiere quotidiane?
Perché quella di Arvit sarebbe facoltativa, mentre quella mattutina e quella pomeridiano sono obbligatorie?
Sempre nel trattato di Berakhot (26b), nella pagina precedente, il Talmud solleva una questione diversa, quella dell’origine delle preghiere quotidiane.
Secondo un’opinione, “Tefillot avot tiqnum / le preghiere sono state istituite dai nostri patriarchi. Abramo ha istituito Shachrit, la preghiera Shaharit del mattino, Isacco ha introdotto la preghiera del pomeriggio, Minchah; Giacobbe ha istituito quella serale Arvit.
Tra le tante spiegazioni riguardo l’associazione dei tra patriarchi alle tre preghiere quotidiane, una afferma che il motivo dipende dal fatto che i tre patriarchi simboleggiano tre diverse circostanze. Abramo è associato al mattino perché ha goduto di molte benedizioni e buona fortuna. Come il sole del mattino, il suo successo è diventato sempre più luminoso con il tempo e invecchiando, ha ottenuto maggiore ricchezza e guadagnato maggiore prestigio.
Isacco, invece, rappresenta il pomeriggio, poiché anche se lui godeva di grande ricchezza e prosperità, ma poi la sua “luce” ha iniziato a tramontare. Invecchiando, ha sopportato le avversità sia in famiglia sia dall’esterno per mano dei Filistei e poi perse la vista. La sua vita assomiglia quindi alla luce calante del sole pomeridiano.
Giacobbe è collegato alla preghiera serale di Arvit perché la sua vita è stata, in larga misura, caratterizzata da “oscurità”. Ha subito numerose sofferenze, a partire da suo fratello che lo voleva uccidere per cui fu costretto a fuggire e vivere con il suo astuto e corrotto zio. In seguito, sua figlia fu rapita e stuprata e il figlio prediletto Giuseppe fu venduto come schiavo dagli altri suoi figli. La sua famiglia ha infine sofferto una terribile carestia (quella predetta da Giuseppe stesso al faraone in Egitto). Giacobbe quindi è l’emblema delle preghiere recitate durante la “notte”, nei periodi di oscurità e insicurezza.
Ed è per questo motivo che questa preghiera è stata considerata – in linea di principio – facoltativa, perché la nostra fiducia e la nostra speranza nel Signore, ci porta a credere che tutti i periodi di oscurità siano temporanei e fugaci. Pertanto la norma stabilita non richiede, in senso stretto, l’obbligo di recitare la preghiera notturna, perché la “notte” non dura. Perché qualsiasi avversità che affrontiamo, di sicuro finirà e lascerà presto il posto alla luce della gioia e della buona fortuna. Non può esserci un obbligo stretto di recitare Arvit, perché questa preghiera non sarà sempre necessaria; qualsiasi oscurità che noi e il mondo sperimentiamo è temporanea.
Ma ora torniamo al brano di questa settimana.
L’ultima parte (Numeri 28-29) è dedicata ai sacrifici speciali da eseguire durante le festività nel Bet Hamikdash, il Tabernacolo prima e il Santuario di Gerusalemme dopo.
La Torah passa in rassegna tutte le occasioni speciali – Shabbat, Rosh Chodesh, Pesach, Shavuot, Rosh Hashanah, Kippur, Sukkot e Shemini Atzeret – specificando i sacrifici che devono essere offerti in ogni occasione.
Naturalmente, la ricorrenza di Tisha BeAv non appare nella Torah, perché non si sarebbe dovuta mai stabilire. In effetti, ci si aspettava che fossimo sempre degni della presenza del Tempio in modo che non venisse mai distrutto.
Forse è per questo che leggiamo questi capitoli, che parlano delle feste, durante il periodo di Ben Hametzarim, per ricordarci che anche se osserviamo Tisha BeAv ogni anno, questa ricorrenza luttuosa è temporanea. Leggiamo questo brano specificamente per sottolineare che Tisha BeAv è “mancante”, che questo giorno non è pensato per essere una ricorrenza perenne.
Questa lettura ci assicura che l’oscurità del nostro attuale esilio, presto cederà il passo alla luce, che le avversità che il nostro popolo affronta periodicamente, un giorno finiranno del tutto e sperimenteremo la gioia e l’euforia della nostra redenzione finale, che possa arrivare presto e nei nostri tempi, Amen.
Shabbat Shalom!